Una scuola che aiuta a crescere,
alla scoperta di sé e del mondo.
Accompagnati sulla via della conoscenza,
per imparare a vivere da protagonisti.
don Luigi Giussani
30 ANNI DI AVVENTURA EDUCATIVA!
Nell'ultimo numero:
Marco Squicciarini, direttore delle Scuole Santa Maria
“ Tu sei per me, io sono per te”. Raramente ho sentito descrivere il cuore del fatto educativo come da queste scarne parole, pronunciate da un amico recentemente. Vi ritrovo la condizione essenziale e necessaria perché avvenga quel cammino che ci fa crescere, che ci conduce ad affrontare la vita con ciò di cui davvero abbiamo bisogno. Il punto di partenza della relazione educativa sta in un’accoglienza totale di chi abbiamo di fronte, perché riconosciuto come parte costitutiva del nostro essere, come un dono che impreziosisce la nostra persona, di cui abbiamo bisogno per crescere. Ed è per questo che possiamo dire la seconda parte della frase: “io sono per te”, poiché questa coscienza ci porta a donarci senza calcolo, senza paura di perderci. Lo diceva in modo mirabile anche il profeta dell’Antico Testamento: “tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima”. (Isaia 43, 4).
Quest’anno un’allieva lo ha detto pubblicamente, di fronte alla domanda “cosa vi ha reso veramente felici, almeno una volta nella vita?”. Dopo un momento di silenzio ha alzato la mano e, sorridendo, ha parlato nel silenzio generale: “quando mi sono accorta di avere una famiglia che mi ha voluto bene”.
La sfida educativa, oggi come all’inizio della storia umana, si gioca in questo semplice spazio di apertura incondizionata a chi ci viene donato.
Tutti però sappiamo che nel compito dell’educatore non vi è nulla di semplice. La strada quotidiana è impegnativa, esige pazienza, segna fallimenti e inciampi. È come se questa consapevolezza non tenesse nel tempo, di fronte ai limiti che emergono puntualmente e che sembrano annebbiare. Possono prevalere la frustrazione e lo scandalo, fino al dubbio: “ne vale veramente la pena?”.
L’esperienza di questi anni mi mostra, con chiarezza, che da soli non si educa, ovvero non si resta in quella posizione iniziale di accoglienza e di dono di sé. Ci vuole una compagnia generatrice, in cui sperimentare su di sé questa ammirazione sconfinata, di cui ho veramente bisogno.
Una compagnia che, in una scuola, deve avvenire anzitutto sul campo specifico del nostro mestiere: una compagnia sull’insegnamento, sulla didattica. Una compagnia con i colleghi di materia, in cui possa sentirmi accolto, prezioso, in cui possa rifluire con libertà l’esperienza che sto vivendo in classe. Una compagnia creativa e rigeneratrice, attraverso cui emergano nuove strade per riprendere. Una compagnia in cui riportare e giudicare anche la fatica che, a volte, ci fa cadere le braccia.
Questa è l’esperienza che viviamo nelle nostre scuole. Essere educati, per educare. Continuare ad imparare, per insegnare. Chi vive questa dimensione professionale ed umana, arriva a fine carriera capace di sorridere di fronte ai problemi e pronto a lasciarsi correggere dall’ultimo arrivato il quale, appunto, diventa prezioso ai miei occhi.
Pietro Croce, presidente dell’Associazione Santa Maria
Viviamo un tempo in cui le crisi assumono sempre più dimensione e portata globale e sembrano destinate a durare nel tempo. C’è giustamente da chiedersi se noi e (soprattutto) i nostri figli saremo in grado di affrontarle.
È innegabile un certo disorientamento generale della società per le molte incertezze che caratterizzano, in particolare, questi ultimi anni. Pandemia, guerre, riduzione del potere di acquisto erano, solo pochi anni fa, scenari lontani; ora, la loro inaspettata prossimità e la loro attualità infragiliscono e spaventano. Lo smarrimento ha però origini più profonde. La cultura contemporanea, che è fortemente individualista, concentrata sul presente e condizionata dal mito della prestazione o dall’apparire, sembra meno interessata a sostenere il cammino personale e tende a favorire scelte, spesso non del tutto consapevoli, operate a partire da soluzioni predefinite o dettate da un calcolo condizinato dal rapporto costi/benerfici.
Questo si rispecchia anche in molti giovani, i quali, anziché seguire percorsi di crescita fecondi, tendono all’immedesimazione in modelli vacui o a scelte di consumo per il benessere individuale.
Eppure, è proprio nella giovinezza che una persona è portata a immaginare l’orizzonte di una vita piena di significato; questa attitudine si sviluppa però solo se è educata. Occorre, cioè, un sostegno che aiuti ad andare oltre il particolare della circostanza presente, che incoraggi a credere nella possibilità di trasformare i desideri in veri cammini di vita e che al contempo insegni a vivere il quotidiano e a fare scelte che impegnino positivamente anche il futuro; guardare all’oggi non come al tempo dell’attesa di un futuro incerto, bensì come al tempo delle esperienze e delle scelte vissute con slancio positivo verso il percorso successivo.
Compito della scuola è accompagnare i giovani in questo cammino, affinché sviluppino una capacità di giudizio, imparino a dare senso e significato alle loro scelte, ad attribuire, riconoscere e comunicare valore.
I nostri figli saranno in grado di stare di fronte alle sfide della vita solo se avranno imparato fin dalla gioventù a giudicare ciò che accade, a scegliere senza condizionamenti di correnti di pensiero dominante o, peggio ancora, di algoritmi; a farsi parte attiva di un processo di valore che durerà nel tempo.
Avremo educato un giovane solo se l’avremo reso capace di riconoscere i suoi “principi forti” con cui affrontare la vita con l’impegno, la convinzione e la coerenza che richiede.
Caterina Squicciarini, membro del comitato dell’Associazione Santa Maria
“Se tu rispetti le regole – ha detto la mamma – il tavolino non ti fa male. Ma se tu non le rispetti, picchi il naso. Quella proposta dalla mamma – la quale gira attorno al tavolino senza biciclettina e non si fa mai male – è una visione cosmica, ovvero uno sguardo ampio e adulto sulla realtà che permette di abitarla con intelligenza”.
Con questo simpatico e semplice esempio, il 9 settembre 2023, si è chiuso l’incontro di aggiornamento dal titolo Educazione e senso religioso proposto ai docenti delle scuole Santa Maria e ai soci dell’Associazione che gestisce i due istituti. Tra gli obiettivi principali di questo momento di formazione c’era quello di riflettere sulla proposta educativa all’origine delle nostre scuole. Esse, infatti, sono nate grazie al desiderio di alcuni genitori e docenti cattolici, stimolati dall’incontro con il carisma educativo di don Luigi Giussani, autore del volume Il senso religioso, nel quale si possono ritrovare le intuizioni che stanno alla base delle riflessioni esposte da don Alberto Cozzi, professore di teologia, nella sua lezione magistrale.
Occasioni come questa sono imprescindibili per le nostre scuole, le quali vivono di un’amicizia – tra gli adulti che condividono un desiderio di bene per sé e i propri figli – che continua a sorgere e a rinvigorirsi nel confronto tra la proposta educativa in cui si radica e le sfide dei nostri giorni (le famiglie e i docenti di oggi, gli allievi che ci sono donati, le ristrettezze economiche con cui continuiamo a fare i conti, e molto altro).
Provo ora a condividere alcune delle intuizioni che mi hanno profondamente colpita. I bambini sono dei contemplativi e, per educarli, occorre un’antropologia grandiosa!
C’è bisogno, infatti, di una visione complessiva religiosa della realtà, secondo cui insegno ciò in cui credo, e credo che si possa abitare la realtà ed essere uomini. Ma per abitare il reale e per accedere ragionevolmente alle cose, i bambini, e più in generale i giovani, hanno la necessità di incontrare un adulto o, meglio, un gruppo di adulti; una scuola con un metodo radicato, qualcuno che ponga loro delle domande e che desideri e attenda la loro risposta.
Accanto a questa riflessione espressa in maniera semplice e immediata non sono mancati alcuni approfondimenti su concetti complessi e fondamentali come la ragione, la vis appetitiva, l’insufficienza di buona volontà e spontanea disponibilità per educare, la necessità di radici profonde in un metodo che ci renda ricchi di coscienza della realtà, capaci di giudicare e disponibili a far crescere il nostro sguardo, e, infine, l’importanza di educare attraverso le discipline scolastiche.
Insomma, si è rivelata una lezione che mi ha davvero aggiornata, cioè mi ha rimessa viva “nel giorno d’oggi”, nel presente, permettendomi di riprendere in mano la ricchezza del metodo ereditato da don Giussani e della nostra esperienza e facendomi desiderare giornate piene di lavoro e gusto per tutti noi.
Vi consiglio di andare a vedere la registrazione della lezione al seguente link:
fondatori (allora solo della Traccia) e ne ho seguito i passi attraverso l’esperienza di mio fratello minore, allievo di una delle prime classi. Il fascino ch
Marco Squicciarini, direttore del coro
Ogni anno nelle nostre scuole, da più di vent’anni, un coro nasce ai morti e muore a Natale. A dir la verità i cori sono almeno due: uno di adulti, composto da persone di età compresa fra i quindici e gli oltre settant’anni, l’altro dedicato ai più giovani (quest’anno sono stati venticinque studenti, dalla prima alla terza media). I professionisti sono pochi, ma la bellezza che vi si respira ha un profumo inconfondibile. Quando i cori si riuniscono è commovente ascoltarli e vedere gli occhi di chi vi partecipa: si parla di circa cento persone che per settimane si sono incontrate per lavorare, provando ciò che a casa hanno ascoltato e studiato e che pronunciano in musica parole che, nel percorso, hanno preso carne e sangue; sono vive.
Il coro è parte integrante del presepe vivente che, come ormai da tradizione, si svolge il 24 dicembre a Bellinzona in una chiesa Collegiata gremita di amici, ex allievi, persone incontrate in questi anni e curiosi attratti dalla pubblicità sui media – quest’anno, uno di loro, uscendo, ha detto: “Sono proprio contento di essere stato qui…”. Insomma, un popolo che desidera partecipare di questo avvenimento di bellezza.
La ragione è semplicissima: il Natale è la festa della gioia di ogni uomo che riconosce l’incarnazione di Dio come fatto decisivo per la propria vita. È così da duemila anni: il popolo cristiano, investito da questa lieta notizia, trabocca di gioia e la esprime nel canto che si scioglie di fronte al Bambino di Betlemme, presente ora.
Durante il percorso di quest’anno due canti, composti da Adriana Mascagni, mi hanno profondamente segnato: I Pastori per come descrive il percorso di questi umili personaggi che hanno seguito dei segni fino alla grotta per rendersi conto, di fronte al pianto di un semplice bambino, della sua divinità, e Nella notte in cui nacque Gesù, perché ci dice che quel Bambino non ha bisogno di condizioni speciali per raggiungerci, bensì arriva nella notte in cui “non taceva il rumore delle spade, né la tromba di guerra né il tamburo, ma si udivano canti di vittoria e le grida di gente che moriva”;
viene proprio da noi, oggi.
Posso solo esprimere una profonda riconoscenza per il dono di questi anni: il coro continua ad accompagnarmi nel riconoscimento quotidiano che la speranza non è un concetto ma un uomo presente che cammina con me.
Per raccogliere questa ricchezza e raccontarla nelle sue sfaccettature, abbiamo voluto interpellare alcuni coristi. Molti di questi e altri interventi sono stati recentemente pubblicati sulla rivista svizzero-tedesca SONNTAG che ha dedicato alcune pagine alla bellezza che ogni Natale nasce a Bellinzona attorno alle nostre scuole.
Elisa Dall’Acqua, maestra elementare alla Caravella:
Canto necoro come segno di gratitudine nei confronti di Dio che mi ha amata così tanto da darmi in dono, nonostante i miei sbagli, suo figlio Gesù per salvarmi.
Mattia Turrini, imprenditore:
Nonostante io sia stonato, vado al coro perché è un’occasione unica per avvicinarmi e prepararmi al mistero del Natale.
Nicola Quadri, insegnante liceale:
La cura che si mette per preparare i canti e la bellezza del gesto mi interrogano e permettono di vivere questo tempo liturgico in un attesa positiva per quello che accade a Natale.
Michela Celio, avvocato:
Canto anzitutto perché adoro cantare (malgrado la mia voce) e perché nel canto riesco a fare mie le parole che dico, cerco di renderle vere per me. Il lavoro per la preparazione del presepe vivente mi richiama e aiuta ad entrare con il cuore nell’attesa. La sera della Vigilia, quando c’è il presepe vivente, tutta la frenesia dei preparativi (regali, pranzi, ecc…) rimane fuori dalla porta e ci prendiamo il tempo per contemplare e gioire.
Jean-Claude Bestenheider, geologo:
Seguire il maestro Marco è emozionante;quando, poco a poco, nasce l’armonia delle diverse voci, ho l’impressione di essere sulle strade della Palestina per avvicinarmi passo per passo a Gerusalemme. Quando si compie il gesto finale alla Collegiata di Bellinzona sento una gioia nel cuore, mi sento per un attimo rivivere il sentimento dei pastori che circondavano la culla di Gesù.
Helene Kressebuch, medico:
La cosa più affascinante sono le prove. Quando il maestro Marco alza il dito e dice: “La nota è qui, guardatemi!”, tutti canticchiano a bocca chiusa e di colpo nasce un’armonia perfetta. È come se fossimo calamitati da una bellezza. È un esperienza quasi esistenziale.
Caterina Coggi, liceale:
Ogni canzone è come una casella del calendario dell’avvento che mi porta al Natale e che mi fa riscoprire la magia di questi momenti. Il presepe, la rappresentazione della nascita di Gesú, è la prova e un simbolo che unisce tutti, anche i parenti lontani che ci vengono a vedere. Per me è proprio un momento di unione, tutti noi siamo diversi e diventiamo uguali per farci piccoli davanti a questo bellissimo mistero.
Giovanni Mascetti, insegnante in pensione:
Di fronte all’amore di Gesù, la mia risposta è ben poca cosa. Cantare in coro è la possibilità di far accadere un miracolo che non dipende dalla mia bravura, ma che si manifesta e parla ad ognuno di noi e a chi ci ascolta.
Gloria Zgraggen, psicologa:
Il Natale è il Mistero dell’Incarnazione: Dio che sceglie di farsi uomo e piccolo per essere il più possibile vicino a me. Il Natale è quindi una nuova possibilità di accorgermi e gioire di qualcuno che mi accompagna nel quotidiano e che mi ama nonostante tutte le mie mancanze. Cantare in coro è un bellissimo modo per camminare in compagnia.
Giacomo e Giovanna Turrini, allievi di I media:
Il coro di Natale è stato per noi un’esperienza bellissima: ci siamo divertiti cantando in compagnia. Siamo andati al coro perché la nostra sorella e i nostri compagni di seconda e di terza media ce ne hanno parlato molto bene. Anche se molte canzoni erano per noi nuove, ripassandole più volte le abbiamo imparate. Il bello di questo coro è che tutti
possono partecipare anche se nn hanno una voce particolarmente bella e/o intonata; e la cosa sorprendente è che l’unione di tutte le voci produce una sinfonia meravigliosa. Il giorno del coro eravamo contenti ma nello stesso tempo emozionati di cantare davanti a così tanta gente. Finito il coro ci siamo detti: abbiamo fatto due mesi di prove e adesso più niente per un anno, che peccato!!! Non vediamo l’ora di ritrovarci insieme a cantare il prossimo anno!
ocenti di lingue collaborano per la realizzazione di questi esami, condividendone contenuti e struttura; mentre per noi docenti è una testimonianza reciproca di lavoro per uno scopo comune e condiviso, in un confronto continuo e arricchente, mai scontato, di cui siamo molto grati
Gianmarco Delcò, docente di matematica
La mia collega Laura Bestenheider me ne aveva già parlato con entusiasmo perché in passato lei stessa ci aveva accompagnato una classe, ma quando all’inizio dell’anno Giuseppe Pincolini, un altro collega di matematica, mi ha proposto una visita al Laboratorio Artigianale Digitale (LAD*), dentro di me ha cominciato a montare una certa agitazione. Non sapevo bene come avrei potuto gestire mezzi informatici e tecnologici a me poco familiari e, di conseguenza, mi preoccupava il pensiero di non riuscire ad essere all’altezza nel rispondere alle domande degli allievi. Tuttavia, confortato dal fatto che il momento di lavoro sarebbe stato guidato per filo e per segno da persone esperte, ho aderito alla proposta.
Quando quel pomeriggio, lungo Viale Franscini, chiudevo il gruppo che lentamente camminava verso la meta, apparentemente senza grande entusiasmo, ero comunque pervaso dal mio solito scetticismo.
Eppure, è bastato appendere la giacca sull’appendiabiti e affidare gli allievi a mani esperte e competenti, per vedere aprirsi davanti a me uno scenario davvero sorprendente: disposti a coppie, per una volta senza tante discussioni, seppur con un filo di timidezza, i ragazzi aderiscono all’invito di ricomporre un piccolo giochino di legno ad incastro; ben presto intuiscono che manca un pezzo, che – come suggerito dalle guide – dovrà essere realizzato mediante una stampante laser, ma solo dopo aver messo le mani su un computer e aver familiarizzato con l’utilizzo di un determinato programma. Con la scusa delle fotografie, mi defilo per curiosare inosservato tra i banchi e resto favorevolmente impressionato dall’abilità con la quale le nuove generazioni si destreggiano con il mezzo informatico. Se ben guidati – e se interessati e disposti all’ascolto – i ragazzi captano molto velocemente le informazioni e le fissano nella mente: con pochi clic del mouse, dopo alcuni minuti, ecco apparire su tutti gli schermi il disegno della gamba che mancava per completare la sedia. Il passo successivo è un gioco altrettanto accattivante e in men che non si dica per mezzo della stampante laser tutti realizzano il pezzo desiderato. Ma il bello deve ancora venire perché a questo punto la creatività dei ragazzi viene sollecitata ulteriormente chiedendo loro di realizzare secondo i propri gusti una torre autoreggente ottenuta incastrando tra loro e nei dovuti modi i diversi pezzi che ogni coppia
vorrà produrre.
E qui succede qualcosa che ha dell’incredibile: tutti si mettono all’opera; anche chi magari ha sempre considerato la matematica come qualcosa d’indigesto e ha ripetutamente litigato con calcoli e formule. Oggi no. La motivazione è forte e aiuta a vincere qualsiasi ostacolo. Capo chino sul foglio ognuno abbozza la sua idea, che, dopo essere stata condivisa con il compagno, pian piano prende sempre più forma. Ecco poi apparire qualche immagine sullo schermo. Con la stampante vengono prodotti i primi pezzi, si prova ad incastrarli tra loro, si correggono gli errori, si producono nuovi pezzi. Piano piano la torre viene su. A un certo punto si propone una pausa, ma nessuno ne vuol sapere: il tempo stringe e non si vuole rischiare di lasciare l’opera incompleta.
Quando, ormai all’imbrunire, facciamo notare che si avvicina l’ora di partire, le operazioni subiscono un’ulteriore accelerata, si affinano gli ultimi dettagli e, quasi fuori tempo massimo, viene data alla stampa la versione definitiva.
I risultati sono lì da vedere, anzi, da ammirare, e i ragazzi sono orgogliosi di fare bella mostra delle loro creazioni.
È quasi buio quando, in senso inverso, ripercorriamo Viale Franscini per far rientro a scuola: come all’andata, io sono ancora ansioso, ma stavolta è per il desiderio di tornare a raccontare a colleghi e familiari l’esperienza vissuta e la bellezza incontrata. Occasioni del genere non sono da sprecare. Anzi, riuscire a proporre momenti e modalità di lavoro di questo tipo è una strada da privilegiare nell’insegnamento per far assaporare che anche la matematica e la geometria – pur con il loro rigore – nascondono fascino e bellezza e generano stupore.
La produzione di stelle natalizie durante le successive lezioni di matematica, lo ha confermato.
(*) Il LAD – situato nello Stabile Torretta di Bellinzona – è uno spazio,
messo a disposizione dal DECS, dove le classi in visita trovano un’aula
molto ben attrezzata provvista di diversi tablet come pure di stampanti
3D e stampanti per il taglio laser. Molto bella e affascinante anche
l’esposizione di lavori svolti da altri studenti sfruttando al meglio queste
tecnologie.
Un'esperienza di condivisione di letture nel primo biennio di scuola media
Francesca Razzetti, docente di italiano
L’idea di presentare in classe le letture personali è maturata progressivamente durante lo scorso anno scolastico a partire da una serie di esperienze vissute a lezione con gli alunni di prima media e, più in generale, dal dialogo avviato all’interno del gruppo di materia e con le bibliotecarie; il lavoro di riflessione sui materiali del nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ha costituito la cornice di senso e la partecipazione ad agosto alla formazione «Didattica della lettura: prospettive a confronto» ha esercitato la spinta conclusiva in questa direzione.
Durante la prima media, ho assegnato bimestralmente agli alunni una lettura su temi indicati; ognuno doveva renderne conto con diverse modalità, dalla schedalibro redatta a casa alla verifica in classe, sempre per iscritto. Purtroppo, per varie ragioni non c’è stata l’occasione di parlarne in un momento dedicato: non è stato cioè possibile ai ragazzi esprimere oralmente le emozioni suscitate da una lettura integrale; ho perciò concluso l’anno col preciso proposito di pensare a come concretizzare questa opportunità, per far sì che le quattro abilità linguistiche, sia ricettive (leggere e ascoltare), sia produttive (parlare e scrivere) fossero coinvolte contemporaneamente.
Inoltre, dallo scorso marzo, dopo l’incontro avvenuto a scuola con Andrea Fazioli, che ci ha raccontato la sua esperienza di scrittore non solo di gialli ma anche quotidianamente di un taccuino, avevo cominciato a pensare all’introduzione di un taccuino tra le attività di scrittura spontanea: così alla fine della scuola ne ho consegnato uno a ciascun alunno, chiedendo loro di iniziare a usarlo durante le vacanze per annotare esperienze, riflessioni, domande, sollecitazioni ricavate da letture, film, (tele)giornali, fatti di cronaca, viaggi… insomma, tutto quello che si può scrivere in libertà nella vita quotidiana, nel momento di pausa per eccellenza, l’estate.
Poiché molti allievi hanno scritto spontaneamente nel taccuino pensieri a partire dalle letture estive, ho capito che era proprio arrivato il momento di ricavare all’interno della programmazione uno spazio privilegiato di ascolto e di stimolo per la classe e, per chi presenta, l’occasione di esprimersi attraverso una storia e dei personaggi, consapevole che «la letteratura è un lusso, la finzione (delle storie) una necessità » (Chesterton).
Ha preso forma così gradualmente il progetto di accompagnare gli allievi nella realizzazione di brevi presentazioni delle letture, perché fossero stimolati innanzitutto a leggere col gusto di poter poi condividere quelle emozioni; in un secondo momento, fossero invitati a riflettere sulla lettura con il desiderio di realizzare un lavoro da esporre alla classe; infine, potessero
esprimere un giudizio sulla loro esperienza nell’ottica di proporre ad altri compagni ciò che ognuno aveva trovato leggendo.
Devo riconoscere che hanno lavorato tutti con buona volontà e con risultati comunque apprezzabili:ognuno si è lasciato incantare dalla magia di una storia, segnando sul testo tutto ciò che sollecitava, interpellava, intrigava; sono state preparate schede e scalette più o meno accurate, per mettere in risalto gli aspetti d’interesse dei personaggi e delle loro vicende e per giudicare il carattere e lo stile; i più solerti si sono esercitati a esporre le presentazioni nel tempo concesso e con un linguaggio adeguato allo scopo; tutti hanno risposto nel merito e con piacere alle domande mie e dei compagni, delle OPI quando erano presenti a lezione, persino dei genitori nella giornata delle porte aperte. Possiamo senz’altro dire di aver coltivato insieme l’aspetto emotivo, quello comunicativo e quello espressivo.
Con due presentazioni a settimana, della durata massima di dieci minuti più cinque a disposizione per le domande, tutti e ventidue gli alunni hanno potuto condividere il “loro” libro entro Natale; i compagni avevano il compito di prendere appunti, per scrivere una sorta di diario delle letture di classe e poter scegliere a loro volta la prossima, a partire da quelle presentate. Abbiamo realizzato anche una campagna promozionale involontaria: grazie a una presentazione, La banda dei cedri di Bernasconi-Santinelli, ambientato a Bellinzona, è stato letteralmente saccheggiato nelle librerie della zona e nel sistema bibliotecario ticinese…L’esperienza nel suo complesso è stata per me molto stimolante e arricchente; i ragazzi si sono coinvolti tutti, in ogni aspetto: attendevano con trepidazione il momento delle presentazioni ed erano sempre desiderosi di porre domande. Abbiamo appeso i cartelloni e le presentazioni powerpoint in classe e, quando lo spazio non bastava più, anche alla bacheca della biblioteca: sono i segni concreti del nostro lavoro di un semestre.
Desidero infine lasciare la parola ad alcuni alunni, citando dalle loro presentazioni i giudizi, gli insegnamenti tratti dalle letture, i brevi passi letti ai compagni; anche questo è un modo per condividere ulteriormente i “nostri” libri e soprattutto le nostre emozioni.
PARLARE DAVVERO IN LINGUA 2
a cura dei docenti di lingue della Traccia
Fin dallo scorso anno il nostro gruppo di materia ha iniziato a trovarsi regolarmente per condividere pensieri ed idee legati all’insegnamento delle lingue straniere alla scuola media. In uno dei primi incontri è emerso il desiderio di approfondire l’utilizzo della lingua parlata: le nostre ore di lezione sono spesso dialogate, ma la pratica orale dipende molto dalla partecipazione dei singoli allievi e si limita ad esercizi o dialoghi piuttosto brevi. Si è delineato così l’intento di sentire tutti gli studenti parlare in lingua almeno una volta, dando loro l’occasione, il più possibile concreta, reale e spontanea, di esprimersi. Gli scopi sono principalmente due: poter valutare anche questo aspetto, per nulla secondario, dell’apprendimento della lingua e aiutare gli studenti a confrontarsi con un’interrogazione orale, preparandosi ad affrontare le specificità di una modalità di verifica delle competenze che raramente viene adottata nella scuola media.
Alcuni di noi nelle ore di lezione hanno già sperimentato, oltre ai classici dialoghi, delle brevi prove orali: gli allievi, chiamati alla cattedra, dialogano brevemente con il docente su temi noti, mentre il resto della classe lavora individualmente.
Inoltre, negli anni passati sono state organizzate dagli esperti di materia delle prove cantonali orali, sottoposte agli allievi a fine anno, che abbiamo sempre molto apprezzato e preparato con cura. Infine, alcune classi hanno anche avuto occasione di svolgere delle uscite mirate alla messa in pratica della lingua – a Liestal e Lucerna per il tedesco e a Friburgo per il francese, come già raccontato negli scorsi numeri di questa rivista.
Il confronto all’interno del gruppo di materia ha tuttavia permesso, a partire da queste pratiche già in atto, di far nascere l’idea di organizzare delle prove orali per le diverse classi nelle tre lingue straniere insegnate nella scuola media (francese, tedesco e inglese).
Ci siamo chinati con entusiasmo su questa idea, incontrando il parere favorevole e incoraggiante della direzione e iniziando a collaborare attivamente tra noi per la preparazione delle prove in sé, così come per la riflessione sulle modalità di valutazione e di gestione logistica.
In base alla programmazione didattica prevista per le cosiddette “lingue seconde”, abbiamo deciso di allestire una prova di francese per gli allievi di seconda media, una di tedesco per la classe terza e una di inglese per gli studenti dell’ultimo anno. Da questa cooperazione è sorta anche l’idea di una “mescolanza” tra docenti, in vero stile plurilingue: oltre al docente della materia in esame, alla prova assisterà anche il docente di un’altra lingua, portando così uno sguardo diverso, utile alla valutazione, e stimolante per il confronto tra noi. Infine, un terzo docente lavorerà con gli allievi che restano in classe, in attesa di essere chiamati per l’esame.
In modo sorprendentemente semplice, grazie anche alla collaborazione di ciascuno, il calendario delle prove orali è stato definito; ora manca solo l’ultima parte, ossia la riflessione sul contenuto della prova, in un confronto tra insegnanti della stessa lingua e non.
Questo lavoro ha reso evidente come, pur insegnando lingue diverse, abbiamo idee simili sulla didattica e su cosa sia utile per i nostri allievi. In particolare, ci siamo trovati d’accordo nel ritenere fondamentale che i ragazzi si confrontino con la lingua parlata e siano messi in una situazione che li spinga a utilizzarla in modo spontaneo.
L’auspicio è che questi esami orali siano, per noi docenti e per gli allievi, un’occasione preziosa dal punto di vista umano, (pluri)linguistico e didattico, ma anche come possibilità concreta per capire sempre più cosa significa essere una comunità educante.
Per gli allievi è già reso evidente dal fatto che tutti i docenti di lingue collaborano per la realizzazione di questi esami, condividendone contenuti e struttura; mentre per noi docenti è una testimonianza reciproca di lavoro per uno scopo comune e condiviso, in un confronto continuo e arricchente, mai scontato, di cui siamo molto grati.
e tanto altro...
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