In questo numero:
Marco Squicciarini, direttore delle Scuole Santa Maria
“ Tu sei per me, io sono per te”. Raramente ho sentito descrivere il cuore del fatto educativo come da queste scarne parole, pronunciate da un amico recentemente. Vi ritrovo la condizione essenziale e necessaria perché avvenga quel cammino che ci fa crescere, che ci conduce ad affrontare la vita con ciò di cui davvero abbiamo bisogno. Il punto di partenza della relazione educativa sta in un’accoglienza totale di chi abbiamo di fronte, perché riconosciuto come parte costitutiva del nostro essere, come un dono che impreziosisce la nostra persona, di cui abbiamo bisogno per crescere. Ed è per questo che possiamo dire la seconda parte della frase: “io sono per te”, poiché questa coscienza ci porta a donarci senza calcolo, senza paura di perderci. Lo diceva in modo mirabile anche il profeta dell’Antico Testamento: “tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima”. (Isaia 43, 4).
Quest’anno un’allieva lo ha detto pubblicamente, di fronte alla domanda “cosa vi ha reso veramente felici, almeno una volta nella vita?”. Dopo un momento di silenzio ha alzato la mano e, sorridendo, ha parlato nel silenzio generale: “quando mi sono accorta di avere una famiglia che mi ha voluto bene”.
La sfida educativa, oggi come all’inizio della storia umana, si gioca in questo semplice spazio di apertura incondizionata a chi ci viene donato.
Tutti però sappiamo che nel compito dell’educatore non vi è nulla di semplice. La strada quotidiana è impegnativa, esige pazienza, segna fallimenti e inciampi. È come se questa consapevolezza non tenesse nel tempo, di fronte ai limiti che emergono puntualmente e che sembrano annebbiare. Possono prevalere la frustrazione e lo scandalo, fino al dubbio: “ne vale veramente la pena?”.
L’esperienza di questi anni mi mostra, con chiarezza, che da soli non si educa, ovvero non si resta in quella posizione iniziale di accoglienza e di dono di sé. Ci vuole una compagnia generatrice, in cui sperimentare su di sé questa ammirazione sconfinata, di cui ho veramente bisogno.
Una compagnia che, in una scuola, deve avvenire anzitutto sul campo specifico del nostro mestiere: una compagnia sull’insegnamento, sulla didattica. Una compagnia con i colleghi di materia, in cui possa sentirmi accolto, prezioso, in cui possa rifluire con libertà l’esperienza che sto vivendo in classe. Una compagnia creativa e rigeneratrice, attraverso cui emergano nuove strade per riprendere. Una compagnia in cui riportare e giudicare anche la fatica che, a volte, ci fa cadere le braccia.
Questa è l’esperienza che viviamo nelle nostre scuole. Essere educati, per educare. Continuare ad imparare, per insegnare. Chi vive questa dimensione professionale ed umana, arriva a fine carriera capace di sorridere di fronte ai problemi e pronto a lasciarsi correggere dall’ultimo arrivato il quale, appunto, diventa prezioso ai miei occhi.
Pietro Croce, presidente dell’Associazione Santa Maria
Viviamo un tempo in cui le crisi assumono sempre più dimensione e portata globale e sembrano destinate a durare nel tempo. C’è giustamente da chiedersi se noi e (soprattutto) i nostri figli saremo in grado di affrontarle.
È innegabile un certo disorientamento generale della società per le molte incertezze che caratterizzano, in particolare, questi ultimi anni. Pandemia, guerre, riduzione del potere di acquisto erano, solo pochi anni fa, scenari lontani; ora, la loro inaspettata prossimità e la loro attualità infragiliscono e spaventano. Lo smarrimento ha però origini più profonde. La cultura contemporanea, che è fortemente individualista, concentrata sul presente e condizionata dal mito della prestazione o dall’apparire, sembra meno interessata a sostenere il cammino personale e tende a favorire scelte, spesso non del tutto consapevoli, operate a partire da soluzioni predefinite o dettate da un calcolo condizinato dal rapporto costi/benerfici.
Questo si rispecchia anche in molti giovani, i quali, anziché seguire percorsi di crescita fecondi, tendono all’immedesimazione in modelli vacui o a scelte di consumo per il benessere individuale.
Eppure, è proprio nella giovinezza che una persona è portata a immaginare l’orizzonte di una vita piena di significato; questa attitudine si sviluppa però solo se è educata. Occorre, cioè, un sostegno che aiuti ad andare oltre il particolare della circostanza presente, che incoraggi a credere nella possibilità di trasformare i desideri in veri cammini di vita e che al contempo insegni a vivere il quotidiano e a fare scelte che impegnino positivamente anche il futuro; guardare all’oggi non come al tempo dell’attesa di un futuro incerto, bensì come al tempo delle esperienze e delle scelte vissute con slancio positivo verso il percorso successivo.
Compito della scuola è accompagnare i giovani in questo cammino, affinché sviluppino una capacità di giudizio, imparino a dare senso e significato alle loro scelte, ad attribuire, riconoscere e comunicare valore.
I nostri figli saranno in grado di stare di fronte alle sfide della vita solo se avranno imparato fin dalla gioventù a giudicare ciò che accade, a scegliere senza condizionamenti di correnti di pensiero dominante o, peggio ancora, di algoritmi; a farsi parte attiva di un processo di valore che durerà nel tempo.
Avremo educato un giovane solo se l’avremo reso capace di riconoscere i suoi “principi forti” con cui affrontare la vita con l’impegno, la convinzione e la coerenza che richiede.
Caterina Squicciarini, membro del comitato dell’Associazione Santa Maria
“Se tu rispetti le regole – ha detto la mamma – il tavolino non ti fa male. Ma se tu non le rispetti, picchi il naso. Quella proposta dalla mamma – la quale gira attorno al tavolino senza biciclettina e non si fa mai male – è una visione cosmica, ovvero uno sguardo ampio e adulto sulla realtà che permette di abitarla con intelligenza”.
Con questo simpatico e semplice esempio, il 9 settembre 2023, si è chiuso l’incontro di aggiornamento dal titolo Educazione e senso religioso proposto ai docenti delle scuole Santa Maria e ai soci dell’Associazione che gestisce i due istituti. Tra gli obiettivi principali di questo momento di formazione c’era quello di riflettere sulla proposta educativa all’origine delle nostre scuole. Esse, infatti, sono nate grazie al desiderio di alcuni genitori e docenti cattolici, stimolati dall’incontro con il carisma educativo di don Luigi Giussani, autore del volume Il senso religioso, nel quale si possono ritrovare le intuizioni che stanno alla base delle riflessioni esposte da don Alberto Cozzi, professore di teologia, nella sua lezione magistrale.
Occasioni come questa sono imprescindibili per le nostre scuole, le quali vivono di un’amicizia – tra gli adulti che condividono un desiderio di bene per sé e i propri figli – che continua a sorgere e a rinvigorirsi nel confronto tra la proposta educativa in cui si radica e le sfide dei nostri giorni (le famiglie e i docenti di oggi, gli allievi che ci sono donati, le ristrettezze economiche con cui continuiamo a fare i conti, e molto altro).
Provo ora a condividere alcune delle intuizioni che mi hanno profondamente colpita. I bambini sono dei contemplativi e, per educarli, occorre un’antropologia grandiosa!
C’è bisogno, infatti, di una visione complessiva religiosa della realtà, secondo cui insegno ciò in cui credo, e credo che si possa abitare la realtà ed essere uomini. Ma per abitare il reale e per accedere ragionevolmente alle cose, i bambini, e più in generale i giovani, hanno la necessità di incontrare un adulto o, meglio, un gruppo di adulti; una scuola con un metodo radicato, qualcuno che ponga loro delle domande e che desideri e attenda la loro risposta.
Accanto a questa riflessione espressa in maniera semplice e immediata non sono mancati alcuni approfondimenti su concetti complessi e fondamentali come la ragione, la vis appetitiva, l’insufficienza di buona volontà e spontanea disponibilità per educare, la necessità di radici profonde in un metodo che ci renda ricchi di coscienza della realtà, capaci di giudicare e disponibili a far crescere il nostro sguardo, e, infine, l’importanza di educare attraverso le discipline scolastiche.
Insomma, si è rivelata una lezione che mi ha davvero aggiornata, cioè mi ha rimessa viva “nel giorno d’oggi”, nel presente, permettendomi di riprendere in mano la ricchezza del metodo ereditato da don Giussani e della nostra esperienza e facendomi desiderare giornate piene di lavoro e gusto per tutti noi.
Vi consiglio di andare a vedere la registrazione della lezione al seguente link:
fondatori (allora solo della Traccia) e ne ho seguito i passi attraverso l’esperienza di mio fratello minore, allievo di una delle prime classi. Il fascino ch
Marco Squicciarini, direttore del coro
Ogni anno nelle nostre scuole, da più di vent’anni, un coro nasce ai morti e muore a Natale. A dir la verità i cori sono almeno due: uno di adulti, composto da persone di età compresa fra i quindici e gli oltre settant’anni, l’altro dedicato ai più giovani (quest’anno sono stati venticinque studenti, dalla prima alla terza media). I professionisti sono pochi, ma la bellezza che vi si respira ha un profumo inconfondibile. Quando i cori si riuniscono è commovente ascoltarli e vedere gli occhi di chi vi partecipa: si parla di circa cento persone che per settimane si sono incontrate per lavorare, provando ciò che a casa hanno ascoltato e studiato e che pronunciano in musica parole che, nel percorso, hanno preso carne e sangue; sono vive.
Il coro è parte integrante del presepe vivente che, come ormai da tradizione, si svolge il 24 dicembre a Bellinzona in una chiesa Collegiata gremita di amici, ex allievi, persone incontrate in questi anni e curiosi attratti dalla pubblicità sui media – quest’anno, uno di loro, uscendo, ha detto: “Sono proprio contento di essere stato qui…”. Insomma, un popolo che desidera partecipare di questo avvenimento di bellezza.
La ragione è semplicissima: il Natale è la festa della gioia di ogni uomo che riconosce l’incarnazione di Dio come fatto decisivo per la propria vita. È così da duemila anni: il popolo cristiano, investito da questa lieta notizia, trabocca di gioia e la esprime nel canto che si scioglie di fronte al Bambino di Betlemme, presente ora.
Durante il percorso di quest’anno due canti, composti da Adriana Mascagni, mi hanno profondamente segnato: I Pastori per come descrive il percorso di questi umili personaggi che hanno seguito dei segni fino alla grotta per rendersi conto, di fronte al pianto di un semplice bambino, della sua divinità, e Nella notte in cui nacque Gesù, perché ci dice che quel Bambino non ha bisogno di condizioni speciali per raggiungerci, bensì arriva nella notte in cui “non taceva il rumore delle spade, né la tromba di guerra né il tamburo, ma si udivano canti di vittoria e le grida di gente che moriva”;
viene proprio da noi, oggi.
Posso solo esprimere una profonda riconoscenza per il dono di questi anni: il coro continua ad accompagnarmi nel riconoscimento quotidiano che la speranza non è un concetto ma un uomo presente che cammina con me.
Per raccogliere questa ricchezza e raccontarla nelle sue sfaccettature, abbiamo voluto interpellare alcuni coristi. Molti di questi e altri interventi sono stati recentemente pubblicati sulla rivista svizzero-tedesca SONNTAG che ha dedicato alcune pagine alla bellezza che ogni Natale nasce a Bellinzona attorno alle nostre scuole.
Elisa Dall’Acqua, maestra elementare alla Caravella:
Canto necoro come segno di gratitudine nei confronti di Dio che mi ha amata così tanto da darmi in dono, nonostante i miei sbagli, suo figlio Gesù per salvarmi.
Mattia Turrini, imprenditore:
Nonostante io sia stonato, vado al coro perché è un’occasione unica per avvicinarmi e prepararmi al mistero del Natale.
Nicola Quadri, insegnante liceale:
La cura che si mette per preparare i canti e la bellezza del gesto mi interrogano e permettono di vivere questo tempo liturgico in un attesa positiva per quello che accade a Natale.
Michela Celio, avvocato:
Canto anzitutto perché adoro cantare (malgrado la mia voce) e perché nel canto riesco a fare mie le parole che dico, cerco di renderle vere per me. Il lavoro per la preparazione del presepe vivente mi richiama e aiuta ad entrare con il cuore nell’attesa. La sera della Vigilia, quando c’è il presepe vivente, tutta la frenesia dei preparativi (regali, pranzi, ecc…) rimane fuori dalla porta e ci prendiamo il tempo per contemplare e gioire.
Jean-Claude Bestenheider, geologo:
Seguire il maestro Marco è emozionante;quando, poco a poco, nasce l’armonia delle diverse voci, ho l’impressione di essere sulle strade della Palestina per avvicinarmi passo per passo a Gerusalemme. Quando si compie il gesto finale alla Collegiata di Bellinzona sento una gioia nel cuore, mi sento per un attimo rivivere il sentimento dei pastori che circondavano la culla di Gesù.
Helene Kressebuch, medico:
La cosa più affascinante sono le prove. Quando il maestro Marco alza il dito e dice: “La nota è qui, guardatemi!”, tutti canticchiano a bocca chiusa e di colpo nasce un’armonia perfetta. È come se fossimo calamitati da una bellezza. È un esperienza quasi esistenziale.
Caterina Coggi, liceale:
Ogni canzone è come una casella del calendario dell’avvento che mi porta al Natale e che mi fa riscoprire la magia di questi momenti. Il presepe, la rappresentazione della nascita di Gesú, è la prova e un simbolo che unisce tutti, anche i parenti lontani che ci vengono a vedere. Per me è proprio un momento di unione, tutti noi siamo diversi e diventiamo uguali per farci piccoli davanti a questo bellissimo mistero.
Giovanni Mascetti, insegnante in pensione:
Di fronte all’amore di Gesù, la mia risposta è ben poca cosa. Cantare in coro è la possibilità di far accadere un miracolo che non dipende dalla mia bravura, ma che si manifesta e parla ad ognuno di noi e a chi ci ascolta.
Gloria Zgraggen, psicologa:
Il Natale è il Mistero dell’Incarnazione: Dio che sceglie di farsi uomo e piccolo per essere il più possibile vicino a me. Il Natale è quindi una nuova possibilità di accorgermi e gioire di qualcuno che mi accompagna nel quotidiano e che mi ama nonostante tutte le mie mancanze. Cantare in coro è un bellissimo modo per camminare in compagnia.
Giacomo e Giovanna Turrini, allievi di I media:
Il coro di Natale è stato per noi un’esperienza bellissima: ci siamo divertiti cantando in compagnia. Siamo andati al coro perché la nostra sorella e i nostri compagni di seconda e di terza media ce ne hanno parlato molto bene. Anche se molte canzoni erano per noi nuove, ripassandole più volte le abbiamo imparate. Il bello di questo coro è che tutti
possono partecipare anche se nn hanno una voce particolarmente bella e/o intonata; e la cosa sorprendente è che l’unione di tutte le voci produce una sinfonia meravigliosa. Il giorno del coro eravamo contenti ma nello stesso tempo emozionati di cantare davanti a così tanta gente. Finito il coro ci siamo detti: abbiamo fatto due mesi di prove e adesso più niente per un anno, che peccato!!! Non vediamo l’ora di ritrovarci insieme a cantare il prossimo anno!
ocenti di lingue collaborano per la realizzazione di questi esami, condividendone contenuti e struttura; mentre per noi docenti è una testimonianza reciproca di lavoro per uno scopo comune e condiviso, in un confronto continuo e arricchente, mai scontato, di cui siamo molto grati
Gianmarco Delcò, docente di matematica
La mia collega Laura Bestenheider me ne aveva già parlato con entusiasmo perché in passato lei stessa ci aveva accompagnato una classe, ma quando all’inizio dell’anno Giuseppe Pincolini, un altro collega di matematica, mi ha proposto una visita al Laboratorio Artigianale Digitale (LAD*), dentro di me ha cominciato a montare una certa agitazione. Non sapevo bene come avrei potuto gestire mezzi informatici e tecnologici a me poco familiari e, di conseguenza, mi preoccupava il pensiero di non riuscire ad essere all’altezza nel rispondere alle domande degli allievi. Tuttavia, confortato dal fatto che il momento di lavoro sarebbe stato guidato per filo e per segno da persone esperte, ho aderito alla proposta.
Quando quel pomeriggio, lungo Viale Franscini, chiudevo il gruppo che lentamente camminava verso la meta, apparentemente senza grande entusiasmo, ero comunque pervaso dal mio solito scetticismo.
Eppure, è bastato appendere la giacca sull’appendiabiti e affidare gli allievi a mani esperte e competenti, per vedere aprirsi davanti a me uno scenario davvero sorprendente: disposti a coppie, per una volta senza tante discussioni, seppur con un filo di timidezza, i ragazzi aderiscono all’invito di ricomporre un piccolo giochino di legno ad incastro; ben presto intuiscono che manca un pezzo, che – come suggerito dalle guide – dovrà essere realizzato mediante una stampante laser, ma solo dopo aver messo le mani su un computer e aver familiarizzato con l’utilizzo di un determinato programma. Con la scusa delle fotografie, mi defilo per curiosare inosservato tra i banchi e resto favorevolmente impressionato dall’abilità con la quale le nuove generazioni si destreggiano con il mezzo informatico. Se ben guidati – e se interessati e disposti all’ascolto – i ragazzi captano molto velocemente le informazioni e le fissano nella mente: con pochi clic del mouse, dopo alcuni minuti, ecco apparire su tutti gli schermi il disegno della gamba che mancava per completare la sedia. Il passo successivo è un gioco altrettanto accattivante e in men che non si dica per mezzo della stampante laser tutti realizzano il pezzo desiderato. Ma il bello deve ancora venire perché a questo punto la creatività dei ragazzi viene sollecitata ulteriormente chiedendo loro di realizzare secondo i propri gusti una torre autoreggente ottenuta incastrando tra loro e nei dovuti modi i diversi pezzi che ogni coppia
vorrà produrre.
E qui succede qualcosa che ha dell’incredibile: tutti si mettono all’opera; anche chi magari ha sempre considerato la matematica come qualcosa d’indigesto e ha ripetutamente litigato con calcoli e formule. Oggi no. La motivazione è forte e aiuta a vincere qualsiasi ostacolo. Capo chino sul foglio ognuno abbozza la sua idea, che, dopo essere stata condivisa con il compagno, pian piano prende sempre più forma. Ecco poi apparire qualche immagine sullo schermo. Con la stampante vengono prodotti i primi pezzi, si prova ad incastrarli tra loro, si correggono gli errori, si producono nuovi pezzi. Piano piano la torre viene su. A un certo punto si propone una pausa, ma nessuno ne vuol sapere: il tempo stringe e non si vuole rischiare di lasciare l’opera incompleta.
Quando, ormai all’imbrunire, facciamo notare che si avvicina l’ora di partire, le operazioni subiscono un’ulteriore accelerata, si affinano gli ultimi dettagli e, quasi fuori tempo massimo, viene data alla stampa la versione definitiva.
I risultati sono lì da vedere, anzi, da ammirare, e i ragazzi sono orgogliosi di fare bella mostra delle loro creazioni.
È quasi buio quando, in senso inverso, ripercorriamo Viale Franscini per far rientro a scuola: come all’andata, io sono ancora ansioso, ma stavolta è per il desiderio di tornare a raccontare a colleghi e familiari l’esperienza vissuta e la bellezza incontrata. Occasioni del genere non sono da sprecare. Anzi, riuscire a proporre momenti e modalità di lavoro di questo tipo è una strada da privilegiare nell’insegnamento per far assaporare che anche la matematica e la geometria – pur con il loro rigore – nascondono fascino e bellezza e generano stupore.
La produzione di stelle natalizie durante le successive lezioni di matematica, lo ha confermato.
(*) Il LAD – situato nello Stabile Torretta di Bellinzona – è uno spazio,
messo a disposizione dal DECS, dove le classi in visita trovano un’aula
molto ben attrezzata provvista di diversi tablet come pure di stampanti
3D e stampanti per il taglio laser. Molto bella e affascinante anche
l’esposizione di lavori svolti da altri studenti sfruttando al meglio queste
tecnologie.
Un'esperienza di condivisione di letture nel primo biennio di scuola media
Francesca Razzetti, docente di italiano
L’idea di presentare in classe le letture personali è maturata progressivamente durante lo scorso anno scolastico a partire da una serie di esperienze vissute a lezione con gli alunni di prima media e, più in generale, dal dialogo avviato all’interno del gruppo di materia e con le bibliotecarie; il lavoro di riflessione sui materiali del nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ha costituito la cornice di senso e la partecipazione ad agosto alla formazione «Didattica della lettura: prospettive a confronto» ha esercitato la spinta conclusiva in questa direzione.
Durante la prima media, ho assegnato bimestralmente agli alunni una lettura su temi indicati; ognuno doveva renderne conto con diverse modalità, dalla schedalibro redatta a casa alla verifica in classe, sempre per iscritto. Purtroppo, per varie ragioni non c’è stata l’occasione di parlarne in un momento dedicato: non è stato cioè possibile ai ragazzi esprimere oralmente le emozioni suscitate da una lettura integrale; ho perciò concluso l’anno col preciso proposito di pensare a come concretizzare questa opportunità, per far sì che le quattro abilità linguistiche, sia ricettive (leggere e ascoltare), sia produttive (parlare e scrivere) fossero coinvolte contemporaneamente.
Inoltre, dallo scorso marzo, dopo l’incontro avvenuto a scuola con Andrea Fazioli, che ci ha raccontato la sua esperienza di scrittore non solo di gialli ma anche quotidianamente di un taccuino, avevo cominciato a pensare all’introduzione di un taccuino tra le attività di scrittura spontanea: così alla fine della scuola ne ho consegnato uno a ciascun alunno, chiedendo loro di iniziare a usarlo durante le vacanze per annotare esperienze, riflessioni, domande, sollecitazioni ricavate da letture, film, (tele)giornali, fatti di cronaca, viaggi… insomma, tutto quello che si può scrivere in libertà nella vita quotidiana, nel momento di pausa per eccellenza, l’estate.
Poiché molti allievi hanno scritto spontaneamente nel taccuino pensieri a partire dalle letture estive, ho capito che era proprio arrivato il momento di ricavare all’interno della programmazione uno spazio privilegiato di ascolto e di stimolo per la classe e, per chi presenta, l’occasione di esprimersi attraverso una storia e dei personaggi, consapevole che «la letteratura è un lusso, la finzione (delle storie) una necessità » (Chesterton).
Ha preso forma così gradualmente il progetto di accompagnare gli allievi nella realizzazione di brevi presentazioni delle letture, perché fossero stimolati innanzitutto a leggere col gusto di poter poi condividere quelle emozioni; in un secondo momento, fossero invitati a riflettere sulla lettura con il desiderio di realizzare un lavoro da esporre alla classe; infine, potessero
esprimere un giudizio sulla loro esperienza nell’ottica di proporre ad altri compagni ciò che ognuno aveva trovato leggendo.
Devo riconoscere che hanno lavorato tutti con buona volontà e con risultati comunque apprezzabili:ognuno si è lasciato incantare dalla magia di una storia, segnando sul testo tutto ciò che sollecitava, interpellava, intrigava; sono state preparate schede e scalette più o meno accurate, per mettere in risalto gli aspetti d’interesse dei personaggi e delle loro vicende e per giudicare il carattere e lo stile; i più solerti si sono esercitati a esporre le presentazioni nel tempo concesso e con un linguaggio adeguato allo scopo; tutti hanno risposto nel merito e con piacere alle domande mie e dei compagni, delle OPI quando erano presenti a lezione, persino dei genitori nella giornata delle porte aperte. Possiamo senz’altro dire di aver coltivato insieme l’aspetto emotivo, quello comunicativo e quello espressivo.
Con due presentazioni a settimana, della durata massima di dieci minuti più cinque a disposizione per le domande, tutti e ventidue gli alunni hanno potuto condividere il “loro” libro entro Natale; i compagni avevano il compito di prendere appunti, per scrivere una sorta di diario delle letture di classe e poter scegliere a loro volta la prossima, a partire da quelle presentate. Abbiamo realizzato anche una campagna promozionale involontaria: grazie a una presentazione, La banda dei cedri di Bernasconi-Santinelli, ambientato a Bellinzona, è stato letteralmente saccheggiato nelle librerie della zona e nel sistema bibliotecario ticinese…L’esperienza nel suo complesso è stata per me molto stimolante e arricchente; i ragazzi si sono coinvolti tutti, in ogni aspetto: attendevano con trepidazione il momento delle presentazioni ed erano sempre desiderosi di porre domande. Abbiamo appeso i cartelloni e le presentazioni powerpoint in classe e, quando lo spazio non bastava più, anche alla bacheca della biblioteca: sono i segni concreti del nostro lavoro di un semestre.
Desidero infine lasciare la parola ad alcuni alunni, citando dalle loro presentazioni i giudizi, gli insegnamenti tratti dalle letture, i brevi passi letti ai compagni; anche questo è un modo per condividere ulteriormente i “nostri” libri e soprattutto le nostre emozioni.
PARLARE DAVVERO IN LINGUA 2
a cura dei docenti di lingue della Traccia
Fin dallo scorso anno il nostro gruppo di materia ha iniziato a trovarsi regolarmente per condividere pensieri ed idee legati all’insegnamento delle lingue straniere alla scuola media. In uno dei primi incontri è emerso il desiderio di approfondire l’utilizzo della lingua parlata: le nostre ore di lezione sono spesso dialogate, ma la pratica orale dipende molto dalla partecipazione dei singoli allievi e si limita ad esercizi o dialoghi piuttosto brevi. Si è delineato così l’intento di sentire tutti gli studenti parlare in lingua almeno una volta, dando loro l’occasione, il più possibile concreta, reale e spontanea, di esprimersi. Gli scopi sono principalmente due: poter valutare anche questo aspetto, per nulla secondario, dell’apprendimento della lingua e aiutare gli studenti a confrontarsi con un’interrogazione orale, preparandosi ad affrontare le specificità di una modalità di verifica delle competenze che raramente viene adottata nella scuola media.
Alcuni di noi nelle ore di lezione hanno già sperimentato, oltre ai classici dialoghi, delle brevi prove orali: gli allievi, chiamati alla cattedra, dialogano brevemente con il docente su temi noti, mentre il resto della classe lavora individualmente.
Inoltre, negli anni passati sono state organizzate dagli esperti di materia delle prove cantonali orali, sottoposte agli allievi a fine anno, che abbiamo sempre molto apprezzato e preparato con cura. Infine, alcune classi hanno anche avuto occasione di svolgere delle uscite mirate alla messa in pratica della lingua – a Liestal e Lucerna per il tedesco e a Friburgo per il francese, come già raccontato negli scorsi numeri di questa rivista.
Il confronto all’interno del gruppo di materia ha tuttavia permesso, a partire da queste pratiche già in atto, di far nascere l’idea di organizzare delle prove orali per le diverse classi nelle tre lingue straniere insegnate nella scuola media (francese, tedesco e inglese).
Ci siamo chinati con entusiasmo su questa idea, incontrando il parere favorevole e incoraggiante della direzione e iniziando a collaborare attivamente tra noi per la preparazione delle prove in sé, così come per la riflessione sulle modalità di valutazione e di gestione logistica.
In base alla programmazione didattica prevista per le cosiddette “lingue seconde”, abbiamo deciso di allestire una prova di francese per gli allievi di seconda media, una di tedesco per la classe terza e una di inglese per gli studenti dell’ultimo anno. Da questa cooperazione è sorta anche l’idea di una “mescolanza” tra docenti, in vero stile plurilingue: oltre al docente della materia in esame, alla prova assisterà anche il docente di un’altra lingua, portando così uno sguardo diverso, utile alla valutazione, e stimolante per il confronto tra noi. Infine, un terzo docente lavorerà con gli allievi che restano in classe, in attesa di essere chiamati per l’esame.
In modo sorprendentemente semplice, grazie anche alla collaborazione di ciascuno, il calendario delle prove orali è stato definito; ora manca solo l’ultima parte, ossia la riflessione sul contenuto della prova, in un confronto tra insegnanti della stessa lingua e non.
Questo lavoro ha reso evidente come, pur insegnando lingue diverse, abbiamo idee simili sulla didattica e su cosa sia utile per i nostri allievi. In particolare, ci siamo trovati d’accordo nel ritenere fondamentale che i ragazzi si confrontino con la lingua parlata e siano messi in una situazione che li spinga a utilizzarla in modo spontaneo.
L’auspicio è che questi esami orali siano, per noi docenti e per gli allievi, un’occasione preziosa dal punto di vista umano, (pluri)linguistico e didattico, ma anche come possibilità concreta per capire sempre più cosa significa essere una comunità educante.
Per gli allievi è già reso evidente dal fatto che tutti i docenti di lingue collaborano per la realizzazione di questi esami, condividendone contenuti e struttura; mentre per noi docenti è una testimonianza reciproca di lavoro per uno scopo comune e condiviso, in un confronto continuo e arricchente, mai scontato, di cui siamo molto grati.
... e tanto altro!
In questo numero:
a cura di Sofia Pegorari, ex-allieva
In occasione del trentesimo anniversario dalla nascita della Scuola Media La Traccia, che ho frequentato dal 2004 al 2008, mi è stato chiesto di intervistare Graziano Keller, direttore dal 1992 al 2005, e Marco Squicciarini, suo successore e attuale direttore delle Scuole Santa Maria.
Mi immaginavo di ascoltare due voci che mettessero in luce le differenze tra la scuola “delle origini” e quella attuale, in modo da poterne ricostruire la storia. Tuttavia, al termine del dialogo, sono tornata a casa con una convinzione: queste scuole hanno una storia lunga trent’anni solo perché ciò che è stato intuito come vero all’inizio è stato continuamente riscoperto e approfondito da chi all’inizio nemmeno c’era e, allo stesso tempo, chi ora in questa scuola non lavora più, continua, con passione e generosità, a sentirsi parte della stessa avventura educativa, dando così carne alla citazione di don Luigi Giussani posta all’entrata della Direzione: “La cosa più bella della vita è imparare, cioè affermare l’amore al vero, e insegnare, cioè affermare l’amore all’uomo”.
Com’è nata La Traccia e come ne sei diventato il direttore?
Graziano: Quando i nostri figli iniziavano la scuola media e le Suore della Santa Croce di Menzingen chiudevano l’istituto Santa Maria a Bellinzona, con alcuni amici, tra cui diversi insegnanti, abbiamo considerato l’ipotesi di una scuola che incarnasse i nostri ideali educativi, convinti che l’educazione debba partire da una proposta precisa e condivisa, rivolta alla libertà dell’allievo, in antitesi al concetto di una scuola “neutra”. Fra i promotori io ero l’unico che avesse tutti i requisiti per fare il direttore per cui accettai e partimmo in questa impresa affrontando tutte le sfide concrete che essa implicava, sostenuto da tutti coloro che condividevano questo progetto. E le sfide non sono mancate. Occorreva innanzitutto declinare il progetto adeguandolo alla concretezza delle circostanze. Da un punto di vista didattico, quale spazio offre il riconoscimento cantonale a una scuola come la nostra? Come coinvolgere gli insegnanti nel progetto educativo? Da subito si è capito che si sarebbe potuto rispondere a queste sfide solo se tutti si fossero sentiti protagonisti di un’opera condivisa. Nella nostra scuola uno non può fare semplicemente l’impiegato. Anche nel comitato dell’Associazione Santa Maria questa coscienza di partecipare ad un’opera ha permesso di affrontare le difficoltà finanziarie. Il terzo anno ci trovammo con una prima di solo 12 iscritti. Quando ci riunimmo per una decisione, eravamo tutti piuttosto pessimisti sul futuro. Ciò che ci permise di continuare fu il constatare che tutti eravamo disposti ad assumercene la responsabilità.
Marco: È capitato anche a me. La scuola è una comunità educante: da soli queste decisioni non si prendono.
Per te, Marco, come è iniziata l’avventura in queste scuole come docente e poi direttore?
M.: Ho iniziato a insegnare nel 1997 e, nella relazione con i colleghi, ho scoperto che era il posto per me. Questa compagnia è stata fondamentale anche da direttore: ho affiancato Graziano per un anno, scoprendo come lavorava in ogni ambito e lasciandomi correggere. Essere introdotto a un metodo è una condizione imprescindibile per accettare la responsabilità.
La nascita de La Caravella nel 2005 dimostra la capacità educativa e generativa della scuola: nell’esperienza de La Traccia, altri hanno accolto un’eredità. In forza di un’esperienza positiva come insegnante è nato il desiderio, per i miei figli, assieme ad altri genitori, di capire se quel modo di guardare la persona e la cura dell’insegnamento potesse realizzarsi anche negli anni – fondamentali per la costruzione della persona – delle elementari.
Quali sfide deve affrontare la scuola oggi?
M.: Gli adulti, cuore della scuola, devono approfondire l’unità nella sfida della didattica. Si educa insegnando le varie discipline e non attraverso morali nei vari settori. È necessario riscoprire il metodo più rispettoso della persona e del suo modo di conoscere, per esempio nel lavoro dei gruppi di materia alle medie: in questo le elementari ci educano, perché i giovani maestri vivono quotidianamente l’aiuto reciproco nella didattica. È una sfida grande per la scuola, che altrimenti si riduce a moralismi inutili, mentre nel lavoro scolastico gli allievi scoprono il valore loro e della realtà.
Come favorisce il direttore questo lavoro senza imporre la collaborazione?
G.: Servono insegnanti curiosi circa la verità delle cose, rispettosi della libertà degli allievi e disposti a collaborare. Il direttore deve valorizzare i singoli e non lasciare gli insegnanti soli nei loro difetti o di fronte a una pretesa, aiutandoli a capire qual è la loro strada e a fare un’esperienza positiva.
M.: Il direttore deve stare con i suoi insegnanti e mostrare che conviene, umanamente e professionalmente, affrontare assieme le questioni dell’insegnamento.
Significa spendere energia e tempo nel dialogo con i singoli insegnanti e con il plenum.
Con gli allievi si può essere autorevoli, ma non autoritari?
M.: Riduci all’autoritarismo la relazione con gli allievi quando non desideri stare con loro, che è l’esperienza più bella. Un adulto, se capisce che con i ragazzi cresce, sta con loro, pure a ricreazione, e così gli dice “Tu vali per me”. Con la stessa dedizione fa capire all’allievo quando sbaglia, magari fino a dirgli: “Qui non puoi più stare, perché non ci sono più le condizioni per stare in relazione”. L’autorità si vede in azione, nel modo di trattare tutto: l’ordine, la precisione, la correzione reciproca.
G.: Il direttore non è l’unica autorità, altrimenti l’insegnante perde sia l’autorevolezza sia l’occasione di una relazione con l’allievo. È misterioso come un ragazzo identifichi in un adulto una persona significativa e autorevole; quando capita, ne sei responsabile.
Come possono collaborare efficacemente scuola e famiglia?
G.: I primi educatori sono i genitori, che vanno aiutati, innanzitutto mostrando che è sbagliato pensare che la fatica sia un’obiezione alla felicità. Alle famiglie dicevo: “Non vi prometto che non ci saranno problemi, ma vi assicuro che la scuola li affronta con voi”. Non siamo tutti perfetti. Sia gli insegnanti che i genitori possono sbagliare, ma se c’è la disponibilità di riconoscere il bene del ragazzo è possibile rimettersi in gioco. Il direttore spesso è chiamato a ricordarlo.
M.: Tante famiglie faticano a guardare il figlio come un bene e non un problema. La scuola deve offrire una compagnia e risvegliare la bellezza dell’educare. Può pure ampliare l’orizzonte dei genitori raccontando ciò che succede all’allievo al di là dei suoi limiti. Al contempo, se la scuola non inscatola l’allievo in un discorso ideologico, incontrando la famiglia, può conoscerlo meglio.
Da direttore, è cambiato il lavoro di insegnante?
M.: Conoscendo l’intera opera educativa sono più attento al valore del dettaglio affrontato in classe. Ma accade solo se una compagnia mi mostra la grandezza dell’opera.
Cosa auguri al tuo successore?
M.: Stare in una compagnia educante, perché solo chi riceve, può donare.
Pietro Croce, presidente dell’Associazione Santa Maria
I 30 anni de La Traccia sono un’occasione preziosa per guardare alla storia di questa scuola ed essere grati: grati anzitutto verso coloro che trent’anni fa hanno avuto l’intuizione, ma anche il coraggio – e devono averne avuto molto –, di dare vita a un progetto educativo nuovo, che incarnasse i loro valori e le loro aspirazioni e guardasse alla persona e alla realtà che accade con cuore e mente aperti; grati poi a coloro che negli anni a seguire hanno dato fiducia a quella proposta e l’hanno sostenuta, lasciando che l’intuizione iniziale diventasse un’esperienza viva e più che mai vivace. Sono davvero numerose le persone (alunni, insegnanti, genitori e amici) incontrate lungo il cammino di questi trent’anni che con tenacia e passione hanno voluto e vogliono che La Traccia sia un luogo in cui si possa esperimentare ogni giorno la bellezza dell’imparare e dell’insegnare, del crescere insieme e dell’essere responsabili, del donare e dell’essere grati.
Trent’anni fa, l’idea di fondare una scuola media a Bellinzona poteva forse apparire una sfida inaudita, che superava le capacità dei singoli suoi promotori, ma l’opera buona che ne sarebbe potuta scaturire e che si intravvedeva già allora e soprattutto il fatto di essere insieme hanno permesso l’inizio di una storia che continua ancora oggi, che unisce persone e genera frutti abbondanti, come questo nuovo numero di News Scuole documenta.
Siamo orgogliosi di questa storia che ci ha consegnato una scuola di qualità, aperta, radicata nel territorio, che resta fedele ai suoi ideali e che è stata scelta sin qui da centinaia di famiglie della regione. Ma siamo anche consapevoli della grande responsabilità che ci è affidata. Educare significa sostenere costantemente un’apertura alla realtà che può resistere, di fronte alle difficoltà e alle contraddizioni del quotidiano, solo se nasce e si sviluppa una fiducia vera e piena nella vita. Ogni giorno, in ogni istante, la realtà provoca la nostra libertà: la risposta che diamo dipende da come siamo preparati a stare di fronte a quello che ci è chiesto; dipende cioè dalla capacità che abbiamo di riconoscere il bene nelle circostanze che ci sono date. La scuola, con la famiglia, nel raccogliere la sfida educativa, è chiamata a rendere questa apertura al reale un’esperienza viva. È ciò che ha mosso i fondatori de La Traccia trent’anni fa; è ciò che muove anche noi oggi.
Andrea Mascetti, genitore
Ho visto nascere l’Associazione Santa Maria, ente gestore delle omonime scuole, come figlio di uno dei fondatori (allora solo della Traccia) e ne ho seguito i passi attraverso l’esperienza di mio fratello minore, allievo di una delle prime classi. Il fascino che questa opera portava con sé era evidente ogni volta che si partecipava ai momenti comuni proposti. Ad esempio ricordo le feste finali, vero e proprio spettacolo di un’umanità speciale: docenti, allievi e genitori festeggiavano insieme, grati per l’anno trascorso, come una comunità, una famiglia allargata. Il mio vissuto scolastico, non passato alla Traccia che ancora non esisteva, aveva avuto un’atmosfera molto diversa.
Dopo gli studi, tornato in Ticino, mi sono ritrovato nuovamente molto vicino a queste scuole, attraverso l’amicizia con persone lì impegnate professionalmente, e piano piano sono stato coinvolto sempre più, fino ad entrare a far parte del comitato che le gestisce. Oggi sono sposato con una docente e i miei figli le frequentano.
In questi ultimi dieci anni è avvenuto il primo passaggio di consegne dalla generazione che le aveva fondate alla nostra. La domanda: ”Quale educazione scolastica desideriamo per i nostri figli?” ha portato la nostra famiglia a scegliere con consapevolezza queste scuole. Tutto il resto è stato una conseguenza: dal partecipare al lavoro del comitato dell’Associazione allo svolgere un servizio di aiuto dove si rende necessario (dalla logistica della festa finale, alle piccole riparazioni a scuola e tutte le molte cose di cui necessita un’opera come questa). Diventa evidente che le scuole non esistono da sole, ma solo attraverso le persone che ogni giorno ne desiderano l’esistenza, per sé e per gli altri. Questa mia disponibilità, che ogni giorno viene provocata, diventa il primo ambito in cui la vita mi chiama a dire sì, a rispondere a quello che sento essermi chiesto, come genitore, come uomo, partecipando, anche attraverso la fatica che si fa, alla costruzione di un pezzo di mondo buono, per i miei figli, per me, per tutti.
Carolina Mascetti, docente di francese e inglese
"Dans toutes les visites j’ai bien compris le français” (E.)
"J’ai beaucoup aimé cette visite parce qu’on s’est amusés et on a aussi exercé notre français” (M.)
Queste frasi degli allievi descrivono bene lo scopo dell’uscita del gruppo di francese di IV media a Friburgo.
Già da alcuni anni avevo il desiderio di far praticare la lingua in modo più attivo: da un lato mi sembrava un modo per far sperimentare agli allievi i frutti concreti dell’apprendimento di una lingua che inizia in III elementare e che cresce e si sviluppa insieme a loro, rendendoli in grado di utilizzarla in situazioni di vita quotidiana concreta; allo stesso tempo fornire una buona motivazione per affrontare lo studio del francese nell’ultimo anno di scuola media.
Quest’anno dunque, nel mese di settembre, il desiderio è divenuto proposta concreta e il mio giovane collega di geografia, Nikolas Montorfani, si è proposto di accompagnarci.
La sua presenza è stato il primo regalo di questi due giorni: abbiamo scelto Friburgo non solo perchè più vicina di altre città francofone, ma anche perché è la città dove sta terminando i suoi studi universitari e la conosce molto bene. Ci ha infatti guidato nei luoghi tipici, illustrandone gli aspetti storici e geografici, rigorosamente in francese. Anche la caccia al tesoro iniziale si è svolta nella lingua del posto: gli allievi sono partiti alla scoperta di indizi nel cuore della città vecchia, fermando i passanti per chiedere indicazioni. Dopo la comprensibile timidezza iniziale si sono lanciati con entusiasmo, tanto che la sera, al ristorante dove abbiamo gustato un’ottima fondue, diversi di loro hanno ordinato la cena da soli.
Un altro grande regalo sono stati gli incontri con gli allievi che hanno frequentato le nostre scuole in passato: sapevamo che proprio a Friburgo vivono e studiano diversi di loro, ai quali abbiamo proposto di farci da guida. Abbiamo dunque visitato la cattedrale con Silvio, madrelingua francese e marito della nostra ex allieva Sofia, che ne ha svelato per noi gli aspetti storici e religiosi, terminando con un canto gregoriano eseguito da lui per farci apprezzare e capire ancor di più le antiche sculture.
Nel pomeriggio, dopo un giro panoramico accompagnati da Elia, allievo che ha terminato la Traccia nel 2000, e i suoi bambini, abbiamo avuto la splendida opportunità di visitare l’università con Pietro, un altro ex allievo: ci ha condotti attraverso i luoghi nei quali vive e studia, raccontando in francese la sua esperienza. I ragazzi si sono entusiasmati nel vedere la biblioteca e le grandi aule, dove hanno potuto sedersi ai banchi e sentirsi per un attimo studenti universitari.
Il giorno successivo abbiamo visitato Gruyères, accompagnati da una “conteuse” che ci ha raccontato storie e leggende della regione. Per finire un’ottima merenda, naturalmente a base di meringhe e doppia panna.
In classe ho voluto riprendere con gli allievi quanto vissuto insieme: è stato bello accorgersi che ciò che aveva colpito ed entusiasmato me aveva avuto lo stesso effetto anche su di loro. Il mio desiderio di avvicinarli alla lingua si era concretizzato: hanno infatti potuto sperimentare come ciò che impariamo in classe abbia un legame con la realtà e che verbi, aggettivi, esercizi di ascolto e letture servono ad imparare ad usare la lingua nei luoghi dove la si parla, per ascoltare, chiedere, raccontare e scoprire.
... e tanto altro!
In questo numero:
Marco Squicciarini, direttore delle Scuole Santa Maria
Trent’anni fa nasceva la nostra scuola media La Traccia. Il desiderio condiviso di genitori e insegnanti di un luogo che avesse a cuore l’educazione della persona attraverso l’insegnamento di materie veniva accolto dall’ospitalità delle suore della Santa Croce di Menzingen, che chiudevano la centenaria avventura dell’Istituto Santa Maria. Dallo stesso desiderio e dalla bontà di tredici anni di esperienza veniva alla luce, nel 2005, la scuola elementare La Caravella: perché incontrare allievi e famiglie all’inizio del percorso è desiderabile. E perché un metodo e una cordialità verso la conoscenza e verso gli adulti iniziano ben prima dell’età critica dell’adolescenza. Iniziano in famiglia e continuano, se la scuola si concepisce luogo di educazione, sui banchi e nelle aule. Cosa ci muove oggi, dopo questo pezzo di storia che ha edificato tanti allievi, ha accompagnato tante famiglie, ha visto crescere numerosi insegnanti (alcuni dei quali ex-allievi)?
Quest’anno ho avuto l’occasione personale di lavorare con un allievo per sostenerlo nelle sue fatiche scolastiche. Una delle tante occasioni, nata per necessità, di entrare nel vivo della relazione educativa e didattica che ogni insegnante vive quotidianamente. La tentazione è, ogni volta, quella di arrendersi ai limiti, alla contabilità di ciò che sembra impedire il cammino della conoscenza. Invece accade puntualmente che una strada si apra, che si intravveda la possibilità di scoprire insieme la via che può portare alla meta ultima: la soddisfazione di imparare e la gioia di crescere. I limiti ci sono, ma sono la condizione che rende possibile, personale e attuale questo cammino. Basta chinarsi sull’altro, allievo o classe che sia, con fiducia e stima, desiderosi di scoprire questa strada nuova adesso. Un’altra occasione mi è stata data durante una visita ad una lezione nella scuola elementare quando un’allieva ha alzato la mano per chiedere all’insegnante: “ma è vero?”. Voleva sapere se il racconto del fine settimana proposto da quest’ultimo fosse realmente accaduto. Era un racconto per introdurre un argomento di studio. Che domanda potente! I nostri allievi ci chiedono di essere presenti con tutto noi stessi mentre insegniamo. Esigono la carne e il sangue di una persona vera, viva, che è veramente presente nella relazione educativa.
Mi colpisce molto quando questa presenza umana integrale si gioca e si esprime nella lezione, investendo la didattica per raggiungere gli allievi. Perché nella scuola il compito è questo: educare insegnando. Non solo educare e nemmeno solo insegnare. I due poli sono legati, pena una perdita di umanità o la riduzione dell’esperienza a mero scambio di informazioni. Un’allieva ha portato dalla Russia una copia magnifica del quadro di Rembrandt “Il ritorno del figliol prodigo” dedicato ad una parabola evangelica (Luca 15, 11-32), che avevamo già guardato a lezione. Ci eravamo lasciati interrogare da questo abbraccio inconcepibile per la misura umana, eravamo penetrati nel testo per capirlo, scandagliarlo. Ora ogni giorno abbiamo l’occasione di lasciarci guardare da quel perdono accogliente di cui siamo bisognosi. Cosa dicono questi fatti? Cosa significano di fronte ai grandi problemi che la scuola vive? Cosa c’entrano con la discussione sulla riforma dei livelli in matematica e tedesco? Come illuminano la sfida dell’inclusione cui la scuola faticosamente tende? Come rischiarano i problemi che entrano nella scuola in un tempo in cui l’emergenza educativa è sotto gli occhi di tutti? Mi pare che ogni passaggio, grande o piccolo, istituzionale o individuale, debba incardinarsi sulla consapevolezza di chi è il soggetto umano. L’individuo, fatto per conoscere e scoprire, esige questa ampiezza di testimonianza, questa totalità di umana presenza. Ci chiede, per muoversi, di esserci. Ci chiede di esigere tanto, senza accontentarsi. Ci chiede di essere guardato. Di essere aperto al nuovo che può accadere a lezione. Di amare la nostra materia. Ci chiede di essere disposti a cambiare e a commuoverci, adesso, davanti a lui. L’insegnante ha ogni giorno una grande occasione: riscoprire nelle pieghe della propria umanità la verità e la consistenza dell’io, per affacciarsi alla relazione educativa in modo persuasivo e affascinante. Solo così potrà diventare un educatore ogni giorno, di nuovo. Siamo grati a queste scuole, che hanno permesso lo spettacolo di questa consapevolezza e di questa crescita. E ci auguriamo che questo cammino, se Dio lo vorrà, possa proseguire per toccare e muovere altri nella scoperta del bene più prezioso che possiamo guadagnare e consegnare alla storia: l’educazione.
Pietro Croce, presidente dell’Associazione Santa Maria
Per iniziativa di un gruppo di genitori e insegnanti, 30 anni fa si costituiva a Bellinzona l’Associazione Santa Maria. Il desiderio che esprimeva era quello di creare un soggetto educativo nuovo, allineato ai programmi scolastici cantonali, ma portatore di un modo diverso di fare scuola, fondato sulla consapevolezza che la realtà è positiva e ogni allievo è prezioso e unico. Concretamente, il progetto era quello di fondare una scuola di qualità, sia sul piano didattico, sia sul piano dei rapporti umani, capace di valorizzare i talenti e le specificità di cui ciascuno è portatore; un luogo in cui l’esperienza dell’imparare e l’esperienza dell’insegnare fossero un’avventura meravigliosa, in cui si costruisse per prima cosa la solidità dell’umano e dove i giovani potessero crescere sentendosi voluti bene. Così nel 1992 è nata la scuola media Traccia, cui si è aggiunta, qualche anno dopo, la scuola elementare La Caravella. Queste scuole sono oggi conosciute come Scuole Santa Maria, il cui nome si rifà a quello dello storico Istituto nel quale hanno sede e al tempo stesso richiama la tradizione cattolica nella quale la loro proposta educativa si inserisce; è però anche segno della devota gratitudine per il “miracolo” che ogni giorno accade fra quelle mura: il miracolo di un’opera che da 30 anni si genera e continua a fiorire per la scelta, libera e mai scontata, di molte persone. Anzitutto dei docenti e dei collaboratori che decidono di lavorare nelle nostre scuole e non altrove per l’esperienza umana e professionale che possono fare; dei genitori che vogliono poter contare su una stretta alleanza tra scuola e famiglia e che investono nell’educazione dei loro figli, pagando una retta a costo talvolta anche di sacrifici, certi di offrire loro, in questo modo, un luogo di crescita positivo; dei molti amici, volontari e benefattori che credono valga la pena spendersi per sostenere una scuola che educhi i giovani a guardare alla realtà come a un dono degno di essere vissuto, capito, studiato, indagato, ogni giorno. Queste scuole esistono quindi perché sono volute continuamente. Esistono cioè per la libertà che portano. Siamo grati a tutti coloro che in questi 30 anni di storia hanno contribuito a generare un’opera così preziosa e bella, giocando la loro libertà, mettendo in campo la loro passione e molte risorse. Oggi abbiano di fronte una realtà affermata e apprezzata in tutta la regione. Centinaia di famiglie del Bellinzonese e delle Tre Valli, talvolta anche del Sottoceneri, le hanno scelte. Fra gli allievi di oggi ci sono i figli di allievi della prima ora, che guardano grati al percorso fatto da noi. Anche questo segna la storia di quest’opera, della cui bontà, dopo 30 anni, restiamo assolutamente certi.
Gregorio Schira, genitore
Pinco Pallino! così risposi a mio padre, 30 anni fa, quando mi chiese come mi sarebbe piaciuto si chiamasse la nuova scuola che insieme a un gruppo di amici stava fondando. Fortunatamente non mi ascoltò… e così nacque La Traccia. A quel tempo, ragazzino di quinta elementare, non avevo evidentemente idea di cosa stesse succedendo. Men che meno mi chiedevo il perché di quello che i miei genitori stavano facendo. Ma (questo lo ricordo bene) percepivo l’entusiasmo, la voglia di fare, la gioia di un’opera che nasce. Oggi sono io ad accompagnare i miei figli in quelle aule. E forse soltanto ora, da genitore, riesco a cogliere davvero l’importanza di un luogo come questo. Per i miei figli, per la mia famiglia. Per me. Perché questo cammino, iniziato tre anni fa, educa anche me. Il punto – ci ha spiegato la psicologa Nicoletta Sanese nell’incontro organizzato dall’Associazione Santa Maria lo scorso 26 novembre – è come armiamo i nostri figli per il momento in cui diranno “io”, cosa mettiamo nel loro zaino. Cosa stiamo dando loro? Solo un insieme di regole oppure un modo nuovo di guardare alla realtà? Solo una serie di istruzioni o uno sguardo positivo sulla vita? “Come un genitore guarda suo figlio, così suo figlio è”, ci ha detto ancora Nicoletta Sanese. E qui entra in gioco l’alleanza tra scuola e famiglia (titolo dell’incontro). Perché i figli crescono, imparano, maturano se scuola e famiglia camminano insieme. Se tra i due soggetti educativi vi è lo stesso sguardo sul bambino. Se genitori e maestri (senza la pretesa di sostituirsi gli uni agli altri) diventano come i due argini entro i quali il fiume (il bambino) può e deve scorrere, sentendosi totalmente al sicuro. È proprio questo ciò che io e mia moglie stiamo sperimentando alla Caravella. Una totale fiducia nella scuola, nonché la totale fiducia della scuola in noi. Tanto da poter confidare ai docenti (e viceversa) le difficoltà quotidiane, le preoccupazioni, le paure dei nostri figli. Per confrontarci, aiutarci, crescere insieme. Tutto ciò sta dando frutto. Non c’è giorno (nonostante le fatiche) in cui i bambini non abbiano voglia di andare a scuola. Non c’è giorno in cui non tornino felici di qualcosa che hanno fatto. Non c’è giorno in cui non siano sereni, anche perché certi (come ci ha insegnato ancora Sanese) Educare insieme: scuola-famiglia Gregorio Schira, genitore che noi genitori siamo a casa a fare il tifo per loro. È evidente, per noi, che in questo luogo vengono guardati, compresi, aiutati nello stesso modo con cui li guardiamo, li comprendiamo e li aiutiamo noi: volendogli bene. Ora qualcuno potrebbe obiettare: ma il compito della scuola non è quello di voler bene, è quello di educare. Ebbene, io credo che non sia possibile educare senza voler bene. Cioè senza volere il bene dell’allievo. Solo così, infatti, lo si può accogliere nella sua libertà, nel suo modo di essere, nella sua totalità. Adesso capisco cosa mosse i miei genitori e i loro amici trent’anni fa. Capisco cosa spinge ancora oggi tanti genitori (e non solo) a impegnarsi in quest’opera. Il desiderio che esista un luogo così. Dove ci si guardi (maestri, allievi, genitori) con questa libertà e con questa stima, dove la realtà continui ad essere la guida, e dove lo scopo non sia soltanto la meta, ma il viaggio stesso.
... e tanto altro!
In questo numero:
Marco Squicciarini, direttore
Quest’anno la scuola lavora a porte aperte. Per arieggiare le aule, in ossequio alle norme sanitarie che ci ricordano la presenza del virus, si lavora così. Girando per i corridoi della Traccia e della Caravella trovo così risposta ad una domanda ricorrente nei colloqui con genitori o insegnanti che approdano alle nostre scuole: che scuola è questa? Quale qualità specifica la distingue? Una domanda per nulla scontata che, a tratti, affiora anche in me e che esige una risposta documentata, non astratta, fondata su fatti. Le porte di quelle aule si aprono su finestre a loro volta spalancate: quelle a cui si affacciano di nuovo, ogni giorno, studenti e insegnanti, per ammirare, scoprire, conoscere la realtà. Il primo luogo che qualifica la scuola è questo: la cura della lezione come luogo di apertura verso quel reale che incuriosisce, che chiede un percorso per essere guadagnato, che ci invita ad essere scoperto. Per questo, da anni, ci prendiamo cura del lavoro scolastico: in classe, fuori da essa, nei doposcuola, nel lavoro dei tutor, attraverso l’incontro con testimoni, continuando ad imparare ad insegnare, correggendoci a vicenda… Gli ambiti che la scuola ha per esprimere questa cura sono molti e dipendono dalla creatività e dall’umiltà degli insegnanti e di chi dirige la scuola, fi no al comitato dell’Associazione Santa Maria, che gestisce le scuole.
Vi sono alcuni fatti, raccontati anche in questo News, che documentano questa cura: il lavoro sulla didattica in atto nella scuola elementare, ad esempio, ne è un segno luminoso. Come anche l’attenzione nuova che abbiamo messo a fuoco nella scuola media per aiutarci a sostenere il cammino degli allievi con difficoltà specifiche. Insomma, la nostra scuola vuole esprimere la sua qualità prima di tutto nello specifico del suo essere. Tutto qui? Non credo. Non ci può qualificare semplicemente dicendo che ci sentiamo bravi nello svolgere il nostro lavoro. Che ce la mettiamo tutta e che vogliamo bene agli studenti. Ci mancherebbe altro…! Si tratta soprattutto di esplicitare e riscoprire continuamente la radice di questo atteggiamento, affinché non resti l’esito di uno sterile sforzo moralistico che non tiene nel tempo. L’abbiamo chiaramente visto nella scuola a distanza: l’intensità, la comunione e la novità di quel lavoro non sono derivate da una strategia pianificata a tavolino.
Piuttosto dalla consapevolezza di essere, da anni, destinatari del dono di una presenza che ci raggiunge, ci edifica, ci educa, ci rende desiderosi di incontrare il prossimo. I 27 incontri ufficiali vissuti on-line tra marzo e giugno (sto contando i plenum, i consigli di classe e gli incontri con i genitori senza annoverare i colloqui individuali, le telefonate personali a studenti e genitori, gli incontri informali e le lezioni…) sono segni di questa consapevolezza: siamo destinatari del dono di una presenza. Noi adulti, anzitutto, siamo raggiunti da qualcosa che ci spinge a comunicare all’altro, con fiducia, che vale. Siamo padri perché fi gli. Generativi perché continuamente generati. Cosa significa, per uno studente, questa presenza? Dove un insegnante la può sperimentare? È prima di tutto una comunione che si vede. Un luogo in cui è d’uopo aver cura dell’essere (per dirla con Alfredo che parla con amore a Violetta nella Traviata) che si può toccare con mano. Un insegnante che si ferma nei corridoi per discutere del metodo di studio o della partita di calcio della sera precedente. Un’amicizia che si può vivere nel luogo di lavoro. Un ambito nel quale posso portare con fiducia tutto me stesso, la mia fatica nelle classi, il mio bisogno di scoprire i segreti del mestiere, le mie scoperte, le mie intuizioni…Tutto, di me, è accolto da questa presenza che mi è donata.
A pensarci bene questo dono è all’origine storica di queste scuole ed è l’unica ragione per cui val la pena che continuino ad esistere. I fondatori, così ci raccontano, sono stati mossi da una presenza che li ha convinti ad esplicitare questa cura dell’essere nell’ambito scolastico. Una Presenza che si è manifestata nella storia oltre duemila anni fa, attraverso il fatto cristiano. Una presenza che può incontrare chiunque, dovunque venga, indipendentemente da tutto. Continuiamo a desiderare queste scuole, luoghi in cui si possa sperimentare la cura del proprio essere grazie al dono di una presenza da riscoprire, ogni giorno, nel suo valore profondo.
Pietro Croce, presidente dell'Associazione Santa Maria
Il contesto che stiamo vivendo è di quelli inediti. Ne siamo tutti coscienti, eppure sembriamo spesso incapaci di stare di fronte fi no in fondo a quello che sta succedendo, come protesi verso un incerto ma più propizio “dopopandemia”. Il crescente malcontento, testimoniato anche dalle sempre più frequenti manifestazioni di piazza contro le limitazioni imposte delle autorità, ma anche un più composto lamento per la “malasorte” toccata al mondo in questo tempo di Coronavirus sembrano sostenuti solo dalla speranza che prima o poi ne usciremo. “Andrà tutto bene” pareva ad alcuni la miglior cosa da dire durante la prima fase della pandemia: una frase ripetuta quasi come un ritornello, che ora, di fronte alla seconda ondata, scaramanticamente non si osa nemmeno più pronunciare. C’è chi si arrabbia per la mancanza di libertà e c’è chi semplicemente attende in silenzio tempi più favorevoli. Eppure una situazione di difficoltà come quella che stiamo attraversando già ci ha permesso di vedere più chiaro: è una sorta di lente di ingrandimento sulla vita di tutti i giorni, che ci aiuta a mettere a fuoco quello che, per ciascuno di noi, vale veramente. Anche una pandemia, con tutte le incertezze e le limitazioni che porta, può allora diventare un’occasione per cogliere una bellezza inaspettata, capace di farci crescere e di renderci più certi. Mi ha molto colpito nei giorni scorsi il papà di un ragazzo adolescente che mi diceva di essere preoccupato per le “tante occasioni perse” per suo figlio a causa del Covid, “in un’età che non tornerà più e che il ragazzo non si può godere come dovrebbe”, come se le giornate che stiamo vivendo fossero, per via delle limitazioni, un tempo sprecato e, in definitiva, una grande ingiustizia incapace di generare qualcosa di buono.
Se penso alle nostre scuole, l’esperienza fatta negli ultimi mesi – difficili quanto volete – è un’altra. La pandemia, con tutte le connesse complicazioni, ha posto una volta di più la sfida della libertà, intesa come la capacità di stare di fronte a quello che la realtà ci chiede, di riconoscere, anche nelle circostanze più travagliate, ciò che di buono la vita ci riserva. Ci accorgiamo subito di essere meno distratti e più desiderosi di giornate piene di gusto, mai banali. Nel far fronte alle preoccupazioni che emergevano durante il lockdown, con il temporaneo congelamento delle iscrizioni, il successivo aggravamento della situazione economica di alcune famiglie di nostri allievi, le spese impreviste per garantire la sicurezza a scuola, siamo diventati ancora più consapevoli delle ragioni per le quali ogni giorno ci impegniamo per proporre una scuola che abbia a cuore il destino di ciascun ragazzo. Vedere famiglie che hanno scelto per i loro figli le nostre scuole, pur nell’incertezza e nelle fatiche del momento, perché colpiti da una proposta educativa che non toglie nulla al valore della realtà, in ogni circostanza, ci dice che la vera libertà è possibile anche in un tempo in cui ai nostri ragazzi è chiesto di andare a scuola con la mascherina, in cui non possono fare la festicciola con i compagni o incontrarsi a cena con gli amici. Siamo liberi non se inseguiamo un’illusione di libertà, ma solo se facciamo esperienza di un bene. Per un genitore non vi è libertà più importante di quella di poter scegliere l’educazione che vuole per i propri fi gli; nella scelta consapevole della scuola egli si sente allora veramente libero.
Laura Delcò, maestra di IV elementare
A partire dallo scorso anno, mensilmente, il direttore e Nadia Schira-Bianchi (collaboratrice didattica) entrano nelle classi per osservare due ore di lezione a cui segue un colloquio per discutere insieme degli aspetti emersi durante l’attività svolta. Inizialmente ho avuto la tentazione di pensare che fosse unicamente un momento di giudizio del mio operato. Nasceva quindi in me la preoccupazione di dover concepire e realizzare una lezione alla perfezione, affinché non emergessero i “punti deboli” del mio insegnamento. Ben presto mi sono però resa conto che il valore e lo scopo di questa proposta era tutt’altro. Ne ho avuto la chiara conferma a un certo punto dell’anno scorso, il mio primo anno, quando mi sono trovata a gestire alcune situazioni complesse che rendevano difficile il lavoro in aula. Proprio quando avrei potuto preferire che nessuno venisse a vedere una mia lezione, perché secondo me non stavo riuscendo a svolgere la mia professione come avrei voluto, mi sono riscoperta ad aspettare la visita didattica. Non avevo la preoccupazione di nascondere nulla, al contrario, speravo che anche Marco e Nadia potessero vedere la realtà e a partire da essa iniziare un dialogo con loro per capire come affrontarla. Durante la lezione erano effettivamente emersi tutti i problemi di quel periodo, eppure ero serena nell’affrontare il colloquio, certa che proprio da lì si poteva ripartire per ricostruire un clima di lavoro che permettesse ai bambini di imparare. Grazie alle loro osservazioni e ai loro suggerimenti ho infatti potuto cominciare un lavoro su determinati aspetti legati al mio LAURA DELCÒ, maestra di IV elementare modo di agire in classe, che mi hanno permesso di crescere professionalmente. Questo regolare confronto è uno stimolo a non dare nulla per scontato e il metodo che mi viene proposto di seguire mi ha portato a riconoscere l’importanza di ogni singolo aspetto della didattica. In questi mesi sono stata guidata e aiutata da Nadia e Marco a prestare la giusta attenzione ai dettagli, a partire dai contenuti delle lezioni fi no alla disposizione dell’aula, e con la loro esperienza mi hanno testimoniato che è proprio questa cura al dettaglio che permette ai bambini di crescere. Oltre ad essere un aiuto per migliorare e correggersi, è anche l’occasione per riconoscere i passi della classe e dei singoli allievi; spesso infatti non è immediato vedere i progressi e individuare gli elementi che hanno favorito questi miglioramenti. Il confronto con uno sguardo esterno è di grande aiuto e mi permette di conoscere meglio i miei alunni, senza correre il rischio di restare ancorata a un’immagine che mi sono costruita con il tempo. Le visite didattiche, come i plenum con tutto il corpo docenti, rispondono al bisogno di condividere quanto succede all’interno dell’aula con altre fi gure che lavorano nella scuola.
È per me sempre più evidente che ciò che propongo quando sono in aula da sola con gli alunni, non è mai unicamente il risultato del mio lavoro personale, ma è frutto di un continuo confronto con i colleghi e il direttore.
Questo aspetto mi permette di crescere insieme ai miei allievi e essere sempre più consapevole di ciò che voglio insegnare ai bambini ogni giorno quando entro in classe.
Tra marzo e maggio 2020 la scuola è rimasta chiusa ma ha continuato il suo lavoro a distanza. Di seguito il racconto dell’esperienza di quel periodo da parte di chi l’ha vissuto da protagonista.
Laura Bestenheider, docente di matematica alla Traccia
Insegno matematica alla scuola media La Traccia da ormai parecchi anni e posso dire che per me la situazione della scuola a distanza è stata sicuramente una bella avventura, impegnativa, appassionante, vissuta non da sola ma in compagnia (malgrado lo stato di confinamento).È stato proprio l’inizio ciò che mi ha colpita di più, perché la mattina dopo la chiusura delle scuole noi docenti eravamo già sul piede di guerra, tutti convocati dal direttore per un plenum straordinario. Ancora più eccezionale è stato il fatto che fi n da subito non ha prevalso il lamento per la difficile situazione ma piuttosto la tensione alla ricerca di nuove soluzioni per poter continuare a distanza il nostro lavoro di insegnanti. Durante quel plenum si è visto chiaramente che tutti avevamo a cuore il bene dei ragazzi e delle famiglie e che per questo, davanti alla domanda: “ma come fare per poter continuare a fare scuola in questa situazione?” emergevano tante proposte. Pian piano hanno preso forma concreta nell’ipotesi di utilizzare una nostra piattaforma per coinvolgere gli allievi in una didattica efficace. Le prime due settimane di scuola a distanza sono state intensissime: anche se emergevano questioni e problemi, si continuava sempre a lavorare insieme, confrontandoci durante i plenum e i consigli di direzione online. Questa unità fra gli insegnanti, che già esisteva nella nostra scuola e che è sempre stato il punto forza del nostro lavoro con gli allievi e le famiglie, si è andata così rafforzando e approfondendo, mostrando man mano il suo volto migliore perché giorno per giorno ci veniva chiesto dichinarci sui problemi e di essere disponibili ad aiutare allievi e genitori in difficoltà.
Credo che questa esperienza abbia lasciato un segno molto positivo in noi docenti ed anche in alcuni allievi, divenuti finalmente protagonisti del loro mestiere di studenti: c’è stato chi ha aiutato fi n da subito con consigli ed osservazioni per migliorare lo scambio di materiali on-line fi no a chi timidamente si è risollevato da difficoltà che prima sembravano insormontabili. E chi faceva veramente fatica ad agganciarsi non veniva lasciato solo in una terra di nessuno perché non ci si stancava mai di cercarlo, di stanarlo, ricevendo a volte in cambio il dono più bello che a mio avviso si possa ricevere nel mestiere dell’insegnante: l’incontro fra la mia umanità e quella dell’allievo.
Rossana e Giuseppe Pincolini, genitori
Chi l’avrebbe mai immaginato? Eppure come tutti, il 16 marzo anche noi genitori ci siamo trovati catapultati nella didattica a distanza o DAD come qualcuno l’ha battezzata. Il primo fondamentale dato di gratitudine, in quello strano periodo, è stata la presenza tangibile della scuola dei nostri figli, che non si è tirata indietro. Fin dal primo giorno del lockdown, con il video del Direttore, ha mostrato di sapersi riorganizzare per non far perdere loro nemmeno un giorno di scuola. A noi genitori come ai nostri fi gli è stata da subito chiara la certezza della direzione e degli insegnanti che la bellezza e la positività dell’imparare andassero cercate e riconosciute anche nel periodo del confinamento. A marzo avevamo una figlia che frequentava la terza elementare alla Caravella, una che frequentava la seconda media e un figlio che stava concludendo la quarta media, entrambi alla Traccia. Noi, essendo insegnanti, eravamo molto sollecitati dal nostro lavoro. La scuola a casa dei nostri figli ci ha permesso di ritrovare, reiventandola, una sorta di ordinarietà, in giorni che di ordinario avevano molto poco. Al mattino arrivavano le indicazioni di lavoro della maestra o dei diversi docenti e questo aiutava a strutturare in modo positivo e costruttivo il tempo dell’intera giornata. Il bello è che ogni giorno era una sorpresa nuova, grazie a video, audio, attività a distanza o lezioni in asincrono e sincrono. Nel giro di qualche tempo non solo i due più grandi ma la minore erano in grado di gestire in autonomia Google Drive, Zoom e Mail, di fare la foto al compito svolto con il tablet, caricarlo nella cartella corretta, collegarsi o preparare un podcast o un video per i compagni. Se, forse, in termini di contenuti d’insegnamento si è dovuto tagliare selezionando i contenuti essenziali, il periodo ha costituito per i ragazzi, grazie alle proposte della scuola, un grande arricchimento in termini di competenze digitali, di autonomia e di auto-organizzazione.
In fondo eravamo un po’ a scuola a distanza con i nostri fi gli anche noi! Quello che abbiamo apprezzato di più, oltre al grande impegno dei docenti, è stata sicuramente la loro creatività! Hanno cercato tutti di essere coinvolgenti e stimolanti nonostante le condizioni. Tutti… persino il docente di ginnastica ha proposto film dedicati allo sport per continuare a coltivare, a distanza, l’amore per la sua disciplina. Dalla maestra arrivavano ogni settimana dei video in cui lanciava sfide logicomatematiche, dava istruzioni per attività creative o, travestita da nonna, proponeva delle letture. Per nostra figlia era una festa! La maestra ha saputo salvaguardare anche la dimensione concreta e sperimentale del fare scuola, così fondamentale alla scuola elementare. Ogni settimana proponeva un “esperimento scientifico”. Le istruzioni, via mail, erano percepite da nostra fi glia quasi fossero dei protocolli sperimentali. Con tutta la serietà di una “giovane scienziata” si adoperava per scovare in casa pentolini e strumenti per poi osservare e studiare i fenomeni proposti. Quello che ha raccolto il maggior successo è stato l’esperimento dell’evaporazione dell’acqua. Abbiamo ospitato in camera da letto per più di una settimana diversi contenitori riempiti con la stessa quantità d’acqua. Ogni sera a cena la minore raccoglieva scommesse tra i suoi fratelli su quale di essi sarebbe rimasto prima senza liquido. Era davvero divertente! Per amore al vero, come genitori non è sempre stato semplice. Portare il peso di tutto, dentro alla complessità e alla drammaticità di quello che stavamo vivendo, ci ha impegnati molto. Non sempre siamo riusciti a distinguere propriamente il nostro ruolo di padre e madre da quello di insegnanti o rispettare la necessaria autonomia dei nostri fi gli, aiutandoli al contempo a non “perdersi dei pezzi per strada”. Tuttavia, a posteriori possiamo dire di avere vissuto un’esperienza molto significativa. Abbiamo avuto l’opportunità di accorciare le distanze con la scuola. Abbiamo conosciuto più da vicino i loro insegnanti e le discipline che studiano e anche se in condizioni del tutto straordinarie, abbiamo potuto apprezzare con gratitudine un po’ della bellezza dell’esperienza che essi vivono ogni giorno a scuola, in presenza.
Daniela Marletta, docente di inglese alla Traccia
Lo scorso anno scolastico ho lavorato come docente di inglese alla scuola media La Traccia. È stato un anno denso di avvenimenti, molto ricco sia da un punto di vista professionale che umano. A marzo, all’inizio dell’insegnamento a distanza, mi sono sentita destabilizzata. Io che credevo di avere ormai il controllo di tutte le strategie per insegnare la mia materia in modo efficace, mi sono trovata davanti una sfida: “È possibile vivere in modo umano questa circostanza? C’è un bene per me adesso, che posso comunicare anche ai miei allievi?”.
La risposta è arrivata concretamente, guardando i volti dei miei colleghi con cui è iniziato fi n da subito un lavoro di confronto quotidiano via Zoom. In particolare, con la mia collega di inglese, ormai amica, si è intensificato il lavoro comune che già avveniva nella didattica in presenza. C’è stato un continuo richiamo alle ragioni per cui proporre o meno un’attività, un aiuto reciproco a strutturare una lezione o un lavoro che fosse utile per i ragazzi e con uno scopo preciso, guardando a tutti i fattori e non solo a quello che avevamo in mente noi. Inoltre, sono rimasta affascinata dall’attenzione, la cura e la passione per la realtà del nostro direttore. Inviava un video settimanale di saluti a tutti (allievi, famiglie e docenti), in cui condivideva con semplicità quello che aveva visto accadere nella settimana precedente; ogni lunedì proponeva una preghiera; oltre ai vari incontri con noi insegnanti, quasi quotidiani, ha registrato numerosi tutorial per spiegarci l’uso degli strumenti informatici. Tutto questo mi ha accompagnata passo dopo passo, con grande respiro e con gusto. Ho capito che non è questione di bravura o di performance, ma desiderio di imparare continuamente uno sguardo più vero e più bello per vivere ogni circostanza. Solo da questo sguardo nuovo possono nascere la creatività e la vivacità che mi hanno permesso di insegnare e continuare un rapporto umano con gli allievi, senza perdere nulla, anche a distanza.
A maggio, al momento della ripresa delle lezioni in presenza, ero molto desiderosa di tornare a scuola e rivedere i miei allievi. Mi ero preparata benissimo e attendevo questo “nuovo inizio” dopo due mesi di distanza. Appena entrata in classe li ho salutati con un sorrisone (ho alzato la mascherina perché potessero proprio vedere la mia contentezza), ho chiesto loro come stavano e se fossero contenti di essere tornati a scuola. La risposta è stata un silenzio assordante. Tutti zitti, impassibili, anzi direi quasi scocciati dalla mia domanda. Il mio entusiasmo si è tramutato in tristezza, le mie aspettative deluse. Questi ragazzi, che sono i più grandi, erano come intorpiditi, apatici, spenti. Nel dialogo con loro è emerso un disagio. La realtà che avevano davanti non era quella che si aspettavano o che avrebbero desiderato: niente gita, niente festa di fi ne anno, classe divisa in due gruppi e quindi magari non erano con i propri amici, la distanza, il non potersi abbracciare e noi insegnanti “poliziotti” per far rispettare le regole. Allora tanto valeva non ritornare, sebbene alcuni di loro mi avessero detto durante la didattica a distanza che erano spesso annoiati e stanchi di stare in casa. Mi è stato evidente che l’atteggiamento dei miei ragazzi nascondeva in realtà una grande domanda di senso, forse soffocata dalla delusione, ma presente. E ancor più immediato è stato accorgermi che era anche la mia. Infatti anch’io, pur con tutta la voglia di ripartire, mi chiedevo: “Perché vale la pena ricominciare in condizioni che a volte mi sembrano assurde, con tante complicazioni e attenzioni come richiamare i ragazzi di continuo (che fatica!) e mantenere distanze di cui neanch’io spesso ho la percezione?” Questa mia domanda però era accompagnata da una grande fi ducia in un bene che c’era stato e che era tutto da riscoprire. Infatti non basta aver fatto esperienza del bene una volta, com’è accaduto a me durante il periodo di lockdown. Bisogna che continui a riaccadere nel presente! Dopo aver condiviso con gli allievi la mia esperienza e le mie domande, ho proposto loro di continuare a fare quest’altro piccolo pezzo di strada insieme, desiderando un’apertura del cuore a lasciarsi sorprendere dalla realtà che ci viene data da vivere, coscienti che non siamo soli. Bene, la prima sorpresa è stata la mia quando la settimana successiva entrando in classe sono stata accolta da 11 sorrisi. I miei ragazzi si sono come risvegliati, si sono coinvolti e ci siamo proprio gustati la lezione assieme. Poi la mia collega ha proposto di svolgere un’ora di lezione in giardino. Un’altra piccola novità rispetto al mio e loro schema della giornata e ancora una volta è stata sorprendente l’adesione dei ragazzi a qualcosa di bello pensato per loro. Sono molto grata di questa esperienza: ho preso più coscienza di me, dei ragazzi e di un modo nuovo di vivere la realtà, qualsiasi essa sia, con la certezza di un Bene grande che non ci lascia soli.
Mi chiamo Giona Scheggia e attualmente sono apprendista al primo anno come meccanico di produzione all’aeroporto militare di Lodrino (RUAG). Ho trascorso, purtroppo, solo la quarta media alla Traccia che mi è stata di grande aiuto, sia a livello morale che a livello scolastico. Mi hanno insegnato che cosa vuol dire veramente “imparare” ma specialmente ho conosciuto persone speciali che non dimenticherò mai e ho trascorso momenti indimenticabili da ricordare con un grande sorriso sul viso. La Traccia mi ha guardato per la vera persona che sono e non solo per la mia difficoltà a livello scolastico, questo è stato il mio trampolino di lancio per stimolare quella voglia di imparare che dopo otto anni era ormai passata. Per questo un grande grazie va ai docenti che mi hanno capito e aiutato, ai compagni che malgrado i vari intoppi trascorsi mi hanno portato ogni singolo giorno a guardare le cose in maniera positiva e sorridere. Ma soprattutto grazie a tutte quelle persone che mi hanno insegnato a capire veramente che cosa vuol dire amare ed essere amato. Vi ricorderò sempre con grande gioia e affetto.
In questo numero:
- Strade in festa
- Volute, fino in fondo
- Nadia, una presenza nell'anima
- Un'intesa... che si respira!
- Finalmente il silenzio che ci unisce
- Quando la scuola è diffiicile
- Per imparare...
abbiamo tutti bisogno di amore
- Incontri a scuola:
una grande testimonianza
- Quei martedì di libertà
- Prime impressioni
- La Traccia... e poi?
In questo numero:
- Chiamati per nome
- Costruire l'umano
- Angela, un ricordo del direttore
- I tesori di Bellinzona...
raccontati a un Piccolo Principe
- Un'ex allieva diventa maestra
- Incontri a scuola
- La Traccia... e poi?
- La civica a scuola
- Un sito web
In questo numero:
- Tu sei speciale
- Una scelta mai scontata
- Ciao Pepi!
- Un cammino: storia di un'adozione
- L'ora di religione
- La gioia di donare
- Grazie maestra!
- Una mostra di sculture e pitture
- I manifesti turistici svizzeri:
un viaggio della IIa media
- Il kangourou della matematica
- La IV media a processo
In questo numero:
- Che scuola vogliamo
- Lo scopo della scuola
è il bene dei ragazzi
- Una dolce novità
- La mattina delle professioni
- Una classe che cresce
- Visita ai castelli di Serravalle:
lo storico fa parlare cose mute
- L'Elvezia in cammino
- Allargare l'orizzonte
- A scuola di giornalismo
- La segretissima notte del racconto
- Romeo
In questo numero:
- Parigi e l'educazione
- Un valore per tutti
- Affezzonarsi a un'opera
- Una voglia accesa di vivere
- Cristiani ad Aleppo
- Incontro con i politici
- Viaggio a Roma
- Siamo "Fit in Deutsch"
- Il mago di Oz
- Il re delle scimmie volanti
- Un compagno africano
- La storia dell'Istituto Santa Maria
In questo numero:
- A scuola il dono di testimoniare
- Conquistato dalla bellezza
di un'educazione così
- 10 anni della Caravella
- La passione di insegnare
- Due giorni sul Monte Lema
- Tutto determinato da quell'amicizia
- La matematica applicata
e ... all'aperto
- Il doposcuola
- Lavori in corso
In questo numero:
- Una compagnia che genera
un'opera educativa
- La vita: un'attesa....
- Religione:
un legame tra Dio e l'uomo
- La scuola testimone della realtà
- Incontro con la politica
- "Poetando": le classi in poesia
- Ma come si fa ad avere
una speranza così?
- Dalla natura il cibo
- Mangiare è bello
In questo numero:
- Cogliere una grande e irripetibile
opportunità
- Incontro con Manuele Bertoli
- Accogliere
- Pomeriggio di lavoro alla Caravella
- Una poesia a memoria?
- Visitare Milano
guidati da un maestro
- Le Dantiadi
- La nostra settimana in Ticino
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